Cicloeremia, il viaggio di Ezio fra i paesi abbandonati dell’Appennino

Nota della redazione: Avevamo intervistato Ezio Colanzi a maggio, poco prima della sua partenza per un viaggio in mountain bike alla (ri)scoperta dei paesi abbandonati dell’appennino abruzzese. Il progetto di Ezio, dall’azzeccato nome di Cicloeremia, ci aveva affascinato, e lo abbiamo seguito con interesse quasi in diretta su www.cicloeremia.com, anche se a volte sembrava quasi di violare l’intimità sua, della montagna, e delle persone che ancora ci vivono. Tornato dal suo viaggio, Ezio ci ha mandato queste impressioni che volentieri pubblichiamo.

Cicloeremia

 

Il mio viaggio ha avuto luogo sulle alture dell’Italia Centrale, in Abruzzo. Posso dire di aver visitato montagne accoglienti anche se introverse, come bisognasse restare giorni per conoscerle appena, cercando gli ultimi abitanti o i posti più segreti. Perciò più che risalire le quote mi è spesso sembrato di entrare in una profondità. Credo sia così l’Appennino.
Di cose ne sono capitate, purtroppo mi sono trovato a dover contenere l’estensione dei racconti sul blog per via di connessioni altalenanti, e poi non è stato facile digitare tutto dallo smartphone.
Sono successi incontri molto sinceri, in diverse occasioni ho evitato di fotografare, avrei interrotto l’onestà di certi momenti. La fotocamera può suscitare imbarazzo e una messa in posa è già una piccola finzione.

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L’Appennino è teatro di un abbandono lento, molti paesi contano qualche ultima decina di residenti, altri si trovano in definitiva rovina e sono stati riassorbiti dalla vegetazione tanto che appare difficile un ritorno umano. In alcuni ci sono strutture recuperate di fianco a diversi crolli, come succede ad Altovia, in provincia di Teramo. Forse discendenti di famiglie che vivevano lì hanno pensato di sistemare la casa dei vecchi e magari tornare in estate, soddisfatti del loro futuro con buoni soldi in tasca, ma anche oppressi dalle ore contate del lavoro in centri pieni di rumore. Così non resta che accontentarsi di una finestra affacciata sulle montagne due settimane l’anno. Ogni frammento di muro restaurato, ogni tavolo ripulito dai tarli, fa comunque parte del loro sogno di stare lassù. La loro vita abitativa è composta da due metà, la prima rassegnata ai luoghi quotidiani, l’altra impalpabile e agganciata alle origini come una vecchia giacca appesa in un armadio per sempre chiuso.

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I paesi che ho visitato sono punti sensibili di un abbandono esteso. Come i paesi sono abbandonati i mestieri. Ad esempio mancano i pastori. Qualcuno c’è, in buona parte stranieri trapiantati nella professione per guadagno, e basta che sia lavoro.
Ho conosciuto Florent un ragazzo dalle ciglia nere e abbondanti. Indossava una giacca di un paio di taglie in più, consumata sui gomiti. Stava poggiato su un bastone curvo, solo e assorto come un uomo quando prega. Guardava le pecore. C’erano i cani, per questo non mi sono avvicinato, poi è venuto lui. Ho notato una cicatrice sulla guancia, forse il segno del suo passato lontano. Forse il gioco sbagliato di quando era un bambino, una disattenzione, un coltello. Cose che non ho chiesto. Mi ha detto che è cresciuto in Albania e che da forestiero non troverebbe nulla di meglio da fare. Almeno in montagna non c’è modo di spendere la paga. Risparmia, un giorno comprerà una macchina. Il gregge non è suo ma di una signora che gli dà lo stipendio a fine mese dopo aver ricontato i capi.
Capita anche questo.

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Ho provato ammirazione per le persone che abitano le montagne ed è certo che molto si può fare. Prima di partire era un’idea, ora ne sono convinto. Ci sono mille maniere per contraddire l’abbandono e uscire dai garbugli cittadini per riconoscere opportunità sugli spazi vuoti e sempre disponibili dell’Appennino. Credo che i mezzi attuali possano dare sostegno ai ritorni. Ad esempio internet e il vantaggio di far circolare informazioni, immagini, storie. Di collaborare a distanza con persone e professionalità. Di creare connessioni con altri luoghi, altre montagne simili, e con tutti gli Appennini del mondo.
Si può riabitare, non appoggiandosi a modelli economici imparati e riapplicati, né contando sulla politica, né seguendo una via giusta e convalidata ma tentando una via propria, inventata e forse mai percorsa prima.
Sono partito con l’intento di osservare l’ambiente che riprende quello che l’uomo lascia e come alberi e fiori coprono i vecchi muri. Eppure è stato essenziale incontrare la gente delle montagne, persone che nelle strette di mano mettono una forza speciale e spontanea che somiglia alla spinta dei torrenti. E ce ne vuole per ricambiarla e per far capire che non sei lì soltanto perché hai un viaggio in bicicletta per la testa.

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