Linea Gustav in bici: seconda tappa Minturno-Gallinaro

Dopo l’incontro quasi messianico con la venditrice di fave, col favore del dio dei meteo e con la saccoccia piena di verdi legumi può iniziare la nostra seconda tappa, che da questo momento in poi seguirà il corso vero e proprio del fronte tedesco risalendo il fiume Garigliano verso gli Appennini.

Il percorso di oggi è il più lungo del viaggio, 112 km, e tocca alcune delle mete più significative e celebri lungo la Linea Gustav: Cassino, la sua abbazia e i suoi cimiteri di guerra.

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Dopo aver lasciato il familiare corso della via Appia, costellato di cartelli abusivi che millantano proprietà curative e successi amorosi ad opera del “Mago di Minturno – cartomante – chiromante”, ci inoltriamo nell’interno godendoci la reazione degli automobilisti alla vista di viaggiatori in bicicletta, e constatando ancora una volta che l’effetto che suscitiamo è inversamente proporzionale alla diffusione della cultura della bici; in altre parole, ci guardano dal finestrino come fossimo degli alieni.

Fava dopo fava – eccellente seconda colazione – giungiamo a lambire le suggestive coste del Garigliano, il cui corso ci accompagnerà in risalita per una buona metà della tappa di oggi: il paesaggio che ci si profila davanti cambia, si fa ombroso, in leggera pendenza, al chiasso delle vie marittime si sostituisce la quiete del fiume.

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È uno scenario a dir poco surreale, fatto di terme e hotel abbandonati almeno vent’anni fa, almeno a giudicare dalle rifiniture in alluminio e dalle ampie vetrate degli ingressi fatiscenti, simboli di un assetto economico falsato dalla storia del Dopoguerra e da un mito di benessere che non aveva contatto con la terra.

L’impressione è che questa fosse una zona di villeggiatura per ricchi anziani, e che sia stata abbandonata in fretta e furia come per un’epidemia. O per un cambiamento delle economie locali.

Le tracce di ciò che è stato le possiamo con un po’ di fantasia andare a ricercare nei nomi degli esercizi commerciali, chiusi o sopravvissuti che siano: nomi americani da mito del boom anni Cinquanta, Tahiti, lido Topless, Miami, che oggi fanno un po’ sorridere per la loro ingenuità a posteriori.

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Sgranocchiando imperterriti le fave rimaste, arriviamo alla diga sul Garigliano, e le prime file di pioppeti segnano un primo cambio di regime e di spirito nella tappa: cambio di provincia da Latina a Frosinone, e appare la mole solenne di Montecassino.
Pochi chilometri dopo, come una visione quasi accecante nel suo biancore di marmo, ci ritroviamo davanti il cimitero inglese.
Their name liveth for evermore.

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La terza persona singolare arcaica in -th acuisce la solennità di quelle lapidi ancora sull’attenti, la prospettiva geometrica dà un effetto straniante. La fede protestante anglicana si vede nel carattere disciplinato, pragmatico di questo santuario alla guerra, che dà un carattere più patriottico che religioso alla morte.

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Un pullmann di signori di mezza età, dalla pelle chiara e dai capelli biondi, accosta. In maniera composta, i parenti delle vittime – presumibilmente mai conosciute, o delle quali rimane un ricordo sbiadito o una fotografia in bianco e nero – entrano, poggiano fiori ed escono, nel più assoluto silenzio.

Contrariamente a quanto molti credono, il maggiore Waters non è sepolto qui, lo trovate in un cimitero meno famoso nei pressi di Ardea, identificato dopo il polverone sollevato quanche anno fa dall’ex membro dei Pink Floyd con la sua visita a Cassino in cerca dei resti del padre.

Daniele nel frattempo si è tolto le scarpe per camminare sul prato tra le tombe.
Celebriamo l’entrata in paese con una pausa a base di birra e pizza, per affrontare con maggiore lucidità la salita che conduce all’abbazia.

La salita è violenta e improvvisa, i tornanti si ergono su tutto il Basso Lazio in cerca degli Appennini e di pace dopo tanto martirio. Una delle ultime curve celebra Pantani con una scritta sull’asfalto.

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Giungiamo così in cima. Dopo una breve sosta all’abbazia – soprattutto per farla vedere al nostro gambero da compagnia – visitiamo il cimitero polacco. Un’enorme croce si addossa al rilievo della collina in maniera scenografica e impressionante. A differenza di quello inglese, questo sacrario porta con un sé un alone solenne, mistico, celebrativo in senso cattolico.

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Montecassino fu presa per un puntiglio inglese dopo una lunghissima resistenza, una manovra tattica non indispensabile all’avanzata verso Roma che fu pagata con innumerevoli vite umane. I tedeschi erano asserragliati sull’altura, e le condizioni del territorio resero la battaglia difficilissima e cruenta per entrambi, un corpo a corpo in cui si lottava metro per metro.

La prima battaglia di Montecassino iniziò il 12 gennaio 1944 e si protrasse per un mese circa, con la partecipazione di forze alleate inglesi, polacche, americane e francesi, queste ultime con le sue divisioni marocchine e algerine. Mentre per Minturno le truppe alleate non ebbero problemi eccessivi a sfondare la Gustav, nella zona di Cassino il generale Kesserling aveva fatto confluire vari schieramenti, che difesero in maniera accanita i guadi dei torrenti con pesanti perdite americane. Complici anche le condizioni atmosferiche, la prima battaglia si concluse il 12 febbraio con un netto successo difensivo dei tedeschi.

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Fu nelle tre battaglie successive che la tenace resistenza dei “diavoli verdi”, i paracadutisti tedeschi, cominciò a vacillare: fu decisiva – ma controversa – la decisione del bombardamento dell’abbazia, ordinata dal generale Mark Wayne Clark, che decimò civili rifugiati nel luogo sacro e permise ai tedeschi di asserragliarsi nelle macerie.

Fu soltanto con il mese di maggio, e attacchi congiunti di neozelandesi, indiani e polacchi che le forze tedesche decisero di ritirarsi, per evitare di essere accerchiate dalle divisioni marocchine che avevano sfondato la Linea Gustav più a sud. Dopo manovre che causarono perdite ingentissime, il 18 maggio furono i polacchi a piantare la propria bandiera sulle macerie dell’abbazia.

Tornati giù in discesa grazie al peso del nostro fardello di storie di guerra, percorriamo qualche chilometro di Casilina in pianura, un tratto noioso e trafficato, forse l’unico non piacevole di tutto il viaggio. Una fattoria in cui razzolano maiali ci indica la deviazione in direzione di Roccasecca. La strada torna a salire e ritorna bella.

Superata Roccasecca, ci addentriamo in una strettoia tra i monti scavata dal fiume Melfa: la strada si fa sconnessa, i colori di maggio ricoprono la vallata a tinte violacee, gialle e verde intenso. Il tratto che va da Roccasecca a Casalvieri è comunemente detto tracciolino, ovvero una direttrice in falsopiano che segue le curve di livello evitando eccessive pendenze.

Ma è su una di queste poche pendenze che non riesco a evitare una buca, e il gambero nostro compagno di viaggio viene sbalzato fuori dalla trombetta, finendo sotto i gli pneumatici dell’automobile dietro di me. Da qui in poi inizia il lento processo di disfacimento e la corsa contro il tempo verso l’Adriatico, tentiamo di sistemarlo alla meno peggio ma ha perso una delle tre dimensioni ed ora è un gambero-sogliola. Gli occhietti neri però resistono, spalancati al mondo in cerca di perché.

Dopo una doverosa sosta a base di birra e patatine, in cui ci godiamo la luce del tardo pomeriggio rivestire il bel borgo di Casalvieri, ci si rimette in cammino per gli ultimi venti chilometri. Ci troviamo ormai nella Val di Comino, zona di retrovia della Gustav, e la nostra meta è Gallinaro, paesino dei genitori di Emiliano.

Qui proprio suo zio ci attende per una bella chiacchierata con lucida cognizione di causa sui fatti bellici in Val di Comino, che dà un’impressione abbastanza netta della scollatura tra la Storia dei libri e la storia dei vissuti:
“Gallinaro e tutta la Val di Comino facevano parte delle retrovie della Gustav, già ad Atina ci furono più azioni di guerra, ma nel complesso questa zona è stata piuttosto tranquilla. La sera si vedevano i bagliori dei bombardamenti su Cassino, che era un centro ferroviario di importanza strategica molto più esposto.
Una cosa che ricordo, almeno dal punto di vista individuale, è che i tedeschi durante tutte le operazioni di guerra furono sempre galantuomini, e non diedero mai fastidio a una donna dei paesi della valle. Erano abbastanza umani coi civili tranne quando avevano bisogno di provviste, e in quel caso facevano tremende razzie: avevano bisogno soprattutto di asini, per il trasporto di carico, e di maiali per nutrirsi. Ricordo che quando avevo otto anni due soldati tedeschi mi puntarono una pistola addosso intimandomi di aprire la nostra cantina: quando vidi il luccichio argentato dell’arma fui preso dal panico e scappai dando loro le spalle, correndo dai miei genitori: – papà, papà, i tedeschi vogliono entrare in cantina! – e mio padre: – e lassali fà”
A liberare la valle furono i neozelandesi:

“[…] era rimasto ferito qualcuno dei ragazzi dopo la guerra perché sono andati a disinnescare le munizioni che erano rimaste inesplose, e quindi un paio di amici miei sono rimasti senza un braccio, […] ma qui ad Alvito non c’è stata la guerra per niente. […] Sfondato il fronte di Cassino sono arrivati da noi i neozelandesi in tutta la valle, in tutti questi paesi qua intorno, e hanno cominciato a offrire cioccolato e sigarette tutti quanti, loro avevano dei bossolotti, ci mettevano dentro le sigarette, dei bicchieri di alluminio un po’ grossi […] ed erano allegri con tutti, facevano festa, puoi immaginare, finita la guerra, e loro erano amici di tutti, sorridevano, a differenza poi di quando abbiamo saputo di quello che era successo con i marocchini”.

Così viene invece ricordato invece uno degli episodi più infelici di tutte le operazioni belliche, gli stupri di massa causati dall’ordine del generale Juin che concesse 50 ore di assoluta libertà di azione ai Goumier, mercenari marocchini nelle fila francesi, come ricompensa per aver sfondato la Linea Gustav: https://youtu.be/UjaHisGWzN8

“[…] erano mercenari, che sembra li avesse mandati quel famoso generale francese [Juin], che ce l’aveva con Italia per altri motivi – del resto non era difficile avercela con l’Italia che era entrata in guerra negli ultimi mesi […]- e i francesi ce l’avevano talmente tanto con gli italiani che organizzarono una brigata con i marocchini e altri nordafricani, e sono arrivati nella zona di Cassino con un odio tale contro gli italiani, e soprattutto loro avevano avuto prima di combattere la libertà di fare tutto quello che volevano.

In un paesotto vicino Cassino, a pochi chilometri da Cassino, si chiama Esperia […] lì in un giorno solo violentarono un centinaio di donne dagli otto anni agli ottant’anni. I primi poi a scacciare queste donne furono i familiari, […] e così loro rimasero lì per due tre giorni […]
Sembra che i civili in Val di Comino non videro mai militari italiani, né partigiani né fascisti:

“[…] No, assolutamente, dei partigiani abbiamo sentito parlare dopo, ma qui partigiani non ce ne sono mai stati. Qui si è sentito dire a un certo punto, tra l’altro era pure un mio cugino, aveva cinque o sei anni più di me, e siccome si diceva già in passato che era stato fascista, allora lo prese la gente locale, […] qui di comunisti all’epoca ce n’erano tanti, ne sono venuti fuori tanti, e l’hanno fatto sparire per un certo periodo. […] Partigiani nella zona nostra assolutamente niente.
Per esempio, è successo che avevano preso un tedesco, […] l’avevano preso, ma poi l’hanno lasciato là, non l’avevano ucciso, perché da noi la gente è calma e tranquilla, e non avevano questa foga”.

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