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Foodora e quelle vite a cottimo nell’era delle app milionarie

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La protesta in sella dei rider di Foodora ha mostrato l’altro lato della medaglia: il cottimo nell’era delle app milionarie, la redistribuzione delle briciole a fronte di ricavi ben più ingenti, il senso di precarietà di chi macina decine di chilometri al giorno per consegnare pasti e poi si ritrova a fine mese con una paga con cui fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Lo stato di agitazione dei fattorini che lavorano per Foodora ha mostrato che il Re è nudo e che il lavoro deve essere pagato per quello che è: lavoro, non passatempo per arrotondare.

Dopo la protesta dell’8 ottobre a Torino la vicenda ha fatto parlare di sé e si è propagata anche sui media mainstream come “il primo sciopero della sharing economy”: le voci e le rivendicazioni dei rider sono rimbalzate su tv, radio e giornali amplificando il messaggio. Tutto questo, però, in un contesto in cui l’azienda non chiama quelli che fisicamente effettuano la consegna – e senza i quali non potrebbe introitare neppure un euro – “lavoratori” ma “collaboratori” e, soprattutto, alle richieste di intavolare una trattativa si è chiusa a riccio, rimanendo sulle sue posizioni per cui i rider vanno pagati a consegna effettuata, senza una paga oraria. Cottimo puro, a dispetto di condizioni di lavoro che farebbero pensare a tutt’altro che una prestazione di lavoro autonomo senza alcun vincolo di subordinazione.

La bicicletta e lo smartphone – gli strumenti di lavoro del rider – non sono di proprietà dell’azienda ma, di fatto, vengono “attivati” tramite l’app che gestisce il servizio, smista gli ordini e registra le consegne: una piattaforma che genera ricavi facendo entrare in contatto domanda e offerta di cibo. La legittima domanda dei rider – finora senza risposta – è perché il loro lavoro debba essere così tanto precarizzato a fronte della crescita degli ordini e del fatturato dell’azienda. Il Ministero del Lavoro ha detto che manderà gli ispettori per verificare le condizioni di lavoro dei rider di Foodora, una manifestazione di un problema ben più ampio e irrisolto: quello della precarizzazione costante del lavoro che il Jobs Act non è riuscito ad arginare.

Una situazione che spiega bene Andrea, rider di Foodora, sulla pagina FB Deliverance Project: “Il ponypizza fa 3 ore nel weekend, in macchina o in moto, guadagna 20 euro, benzina pagata, cena pagata e se ne torna a casa. Foodora invece è attiva 7 giorni su 7, dalle 10:30 alle 23. Le centinaia di fattorini, che si muovono in bici, se nel weekend lavorano 3 ore guadagnano 15 euro, pedalano per 30 km e tornando a casa alle 23 devono ancora prepararsi la cena. Di settimana, specialmente nei turni di pomeriggio, con la paga a consegna possono stare anche tre ore vestiti di rosa in strada ad aspettare ordini che non arrivano, facendo pubblicità all’azienda e sprecando ore del proprio tempo senza guadagnare nulla. La domanda che vi pongo è: perché queste aziende, il cui volume d’affari è in continua crescita e solo in Italia è stimato 400 milioni di euro, dovrebbero pretendere che gli strumenti del proprio core business, i fattorini, devono considerare questo lavoro come un passatempo per arrotondare?”.

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