Ecco il bikewashing, ultima frontiera del marketing
C’è un trend in atto nel mondo del marketing che inizia ad affermarsi: è il bikewashing.
Sempre con maggiore frequenza la promozione di qualsivoglia prodotto viene accompagnata da una bicicletta. Se avete la televisione, probabilmente vi sarà capitato di esservi imbattuti nello spot pubblicitario dei cioccolatini FERRERO al caffè che danno la carica al manager che gira per la città in giacca, cravatta e singlespeed.
Oppure la pubblicità dell’ENEL: “quanta energia in un attimo”
Se non avete la TV, invece, vi sarà capitato di passeggiare per le vie del centro: avete fatto caso a quante biciclette fanno bella mostra di se nelle vetrine di negozi che vendono porcellane, capi di abbigliamento, oggetti di arte o chissà quale diavoleria lontana anni luce dal mondo della bici?
Bikewashing letteralmente significherebbe “lavare con la bicicletta” e può essere considerata l’evoluzione di una pratica più o meno corretta del mondo del marketing: il greenwashing.
Il greenwashing è la pratica adottata da chi, a scopo promozionale, millanta caratteristiche di sostenibilità ambientale associate ai propri prodotti o alla propria azienda oppure compie minime azioni a favore dell’ambiente per rimediare davanti all’opinione pubblica alle proprie malefatte. Greenwashing è, per intenderci, la pratica delle compagnie petrolifere che si impegnano a piantare un albero ogni cento litri di carburante venduti o delle aziende che producono detersivi che, mentre da un lato con i propri prodotti avvelenano mari e fiumi, escono in comunicazione annunciando di aver realizzato chissaquanti pozzi d’acqua (generalmente una cifra che corrisponde allo zerovirgolazeroqualcosina percento dei propri profitti) per le popolazioni dell’Africa Subsahariana (anche se questo, per la precisione, rientrerebbe nella categoria del socialwashing).
Insomma, se greenwashing è tingere di verde una cosa che non lo è, bikewashing significa associare valori di ciclabilità a un qualcosa che ne è assolutamente privo nella speranza di riuscire ad operare una trasmigrazione dei valori comunemente associati alla bicicletta (ecologia, simpatia, spensieratezza, tranquillità, velocità, salute, fitness) al prodotto che si vuole promuovere.
È il caso già citato del salone dell’Auto di Detroit o della città di Izmir che, pur di aggiudicarsi EXPO 2020, prova (mentendo spudoratamente, giuro!) a presentarsi al mondo come paradiso della ciclabilità.
Però, mentre il greenwashing meriterebbe punizioni corporali nei confronti di tutti i marketing manager che vi fanno ricorso, il bikewashing è più che perdonabile perché oltre a diffondere la cultura della bicicletta, insinua il dubbio atroce che il futuro della mobilità urbana possa davvero risiedere in quella geometria tanto semplice, fatta di triangoli e cerchi, semplicemente perfetta. Il simbolo di una società che sembra volere uscire dal dopo-sbronza della motorizzazione di massa del XX secolo.
Per ulteriori informazioni sul greenwashing, si veda l’eccellente guida di Futerra.
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