Lorenzo Franzetti, giornalista storico della rivista Ciclismo, ha lasciato lo scorso autunno per fondare Cycle, la nuova testata online e cartacea che esce in libreria per Ediciclo Editore. Al centro del progetto “il ciclismo visto dall’uomo”: non solo agonismo ma anche e soprattutto cultura e approfondimenti. E nessuna divisione, nella nuova testata editoriale, ma un vero e proprio network tra tutte le anime del ciclismo, tranne quella troppo esasperata.
Lorenzo, dopo anni di lavoro lasci un posto fisso come caposervizio della rivista Ciclismo e ti metti a fondare una nuova testata editoriale, Cycle. Una scommessa che porta a chiedere: chi te l’ha fatto fare?
I motivi sono diversi, principalmente perché le riviste cartacee tradizionali sono fossilizzate da sempre sugli stessi argomenti: le competizioni, i materiali, le nuove tecnologie, e anche il pubblico è sempre quello. Anzi, quella fetta di lettori si sta riducendo. Il giornalismo ciclistico sembra essersi ridotto a una questione di numeri, dati scientifici e cronache, anche per questo è in crisi. Con Cycle invece ripensiamo il concetto di testata editoriale, non una rivista tradizionale, ma un progetto multimediale e su più livelli che racconta l’uomo che pedala, l’uomo prima della bicicletta. L’obiettivo è fare appassionare un pubblico nuovo e magari far tornare al ciclismo anche i delusi dalle vicende negative degli ultimi anni. La bici è un fenomeno di costume è un mezzo nazionalpopolare che consente di fare cultura a 360°. Io ho cambiato vita, ma la bici rimane al centro: sono giornalista professionista, ma oggi lavoro anche nell’officina di biciclette con mio padre, La bottega del Romeo e affianco mia moglie nei suoi progetti dedicati al cicloturismo sul Lago Maggiore.
Le riviste di ciclismo cartacee sono in crisi, allora perché far uscire Cycle anche in edizione cartacea?
Perché non è una rivista in senso stretto. Perché il taglio è decisamente diverso. Si tratta di un cartaceo collezionabile, di prestigio: un progetto che vede al centro i contenuti, non i numeri. Cycle cartaceo è la punta di un iceber, il fiore all’occhiello di un progetto multimediale, un progetto attorno a una filosofia.La sfida sarà anche unire tutte le anime del ciclismo, troppo spesso siti specializzati e riviste si rivolgono ad un pubblico molto verticale, creando distinzioni e talvolta diffidenze tra mountain bikers, ciclisti da corsa, ecc… Noi invece crediamo che comunque si pedali, con la fissa, con la graziella, con la city bike col cestino, non fa differenza, facciamo tutti parte della stessa comunità. Il progetto Cycle si muove dunque su più piani: c’è un sito appena nato che sta crescendo www.cyclemagazine.it con l’obiettivo di diventare un network, ovvero con l’ambizione di fare rete. La filosofia di Cycle si concretizza anche negli eventi, incontri culturali, serate, feste, pedalate. Nel cartaceo, ma anche sul sito, le immagini hanno un ruolo importante, e in questo il lavoro del photo editor, Umberto Isman, sarà determinante. Una bella sfida, Cycle!
Ma esiste una domanda sufficiente di un prodotto simile? Se le riviste continuano a spingere sull’aspetto sportivo non è perché, alla fine, è quello che “tira”?
La domanda esiste eccome, anzi forse c’è sempre stata ma molto spesso si è parlato una lingua diversa dal pubblico che potenzialmente potrebbe leggere di bici e ciclismo. Per questo, Cycle, che non è una rivista tradizionale e non sarà mai in concorrenza con loro, va a proporre un’idea nuova, che a molti pare controcorrente. La bici è di moda, adesso è sotto gli occhi di tutti. Le biciclette nelle nostre città sono in aumento, basti pensare alla recente notizia dei 170 mila ciclisti urbani a Roma. Si tratta appunto di persone che utilizzano la bicicletta come mezzo di trasporto e che scoprono un’alternativa nella vita quotidiana. E poi c’è il cicloturismo che si è diffuso molto, qui a Varese la famigliola che prima andava a farsi il giro del lago in macchina ora ci va in bici.
Chi è l’editore di Cycle?
E’ Ediciclo Editore, un editore piccolo se vogliamo, ma di qualità, a cui ci lega un rapporto di stima e amicizia. Ma soprattutto la stessa visione della bicicletta e del ciclismo.
Il ciclismo sportivo italiano (e le aziende produttrici), a differenza della Gran Bretagna, ha snobbato la campagna #salvaiciclisti e in generale non si è dimostrato sensibile al problema della sicurezza di chi pedala in città. Perché?
Perché c’è difficoltà, ma anche poca voglia, di fare cultura ciclistica, vera. Anche per questo il ciclismo è in crisi. Se ci sono meno gare, meno squadre e meno sponsor è anche perché il pubblico è sempre lo stesso: un pubblico sempre più anziano, purtroppo. Ma prima o poi le cose sono destinate a cambiare, i corridori per primi, anche grazie ai social network, sono usciti dal loro guscio e hanno capito che c’è una fetta di potenziali appassionati che ha bisogno di tornare ad innamorarsi del ciclismo. C’è da dire che in Gran Bretagna il successo della campagna si è dovuto soprattutto ad un grande giornale come il Times, che è riuscito a suscitare una forte attenzione attorno al problema della sicurezza, dall’opinione pubblica alla politica.
E i giornali italiani?
Non hanno voluto esporsi. Come può il quotidiano italiano più letto (il Corriere ndr) promuovere una campagna in favore dei ciclisti e della ciclabilità quando una grossa fetta dei suoi introiti proviene dalle case automobilistiche? E poi c’è la Gazzetta, loro hanno perso un giornalista, Pierluigi Todisco, mentre era in bici, ma hanno abbandonato la campagna #salvaiciclisti quando hanno capito che non c’era più possibilità di rivendicarla come propria, ormai era incontrollabile, il web li ha spiazzati ed è andato più in fretta di loro.
Ciclismo, doping e informazione. Ultimamente hai mosso delle critiche per come i giornali hanno trattato il caso Armstrong.
E’ normale, i giornali hanno portato in trionfo Armstrong nel suo momento di gloria, chiudendo gli occhi di fronte a delle evidenze che avrebbero potuto far emergere il problema fin da subito. Se è risaputo che Armstrong aveva frequentazioni con un medico molto “chiacchierato” (il dottor Ferrari ndr), anche i giornali hanno tenuto la linea dell’ambiguità, si è preferito stare a ruota del mito, ahimé falso, senza voler andare a fondo nelle cose “oscure”: si è costruito un mito e lo si è distrutto quando il campione non è servito più. Sul doping poi vorrei aggiungere che oltre ai casi eclatanti, vedi Armstrong, il problema esiste anche nel mondo amatoriale, che spesso emula quello agonistico, e che invece viene sottovalutato.
Come raccontano il ciclismo i giornali?
Dalla sala stampa. E il risultato si può immaginare. Io ho fatto l’inviato per 14 anni, ho seguito Giri d’Italia, Tour de France, Mondiali, la mtb e il ciclocross, sempre dalla strada. Oggi invece in strada non ci va più nessuno, o meglio siamo in pochissimi. La maggior parte dei cronisti resta chiusa nelle sale stampa e negli studi televisivi, così è difficile trasmettere le giuste emozioni. Torniamo al discorso del giornalismo ciclistico come numeri e cronache.
Chi sono le anime di Cycle?
Siamo una bella squadra, ancora ristretta ma appassionata. Oltre a me c’è il direttore Albano Marcarini, urbanista e vero guru del cicloturismo, già collaboratore del Touring Club e autore di diverse guide, poi c’è Guido Rubino, esperto di tecnica e fondatore del sito specializzato Cyclinside.com, Gino Cervi, editore, e il già citato fotografo, Umberto Isman. E poi ci sono Francesco Dondina e Diana Quarti, i nostri esperti di grafica. E Claudio Sanfilippo, il nostro referente del marketing, che è anche un noto cantautore milanese. I collaboratori sono tantissimi, da Gianni Mura a Marco Pastonesi, da Luciana Rota a Laura Bosio e tanti altri scrittori, uomini e donne di di cultura ciclistica.
Cycle Magazine:
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