L’annosa questione delle targhe per le biciclette

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È divampata l’ennesima polemica Bisanzio-style: le biciclette devono essere targate? Ha trovato il tempo di occuparsi di questa vexata questio una consigliera regionale lombarda, Maria Teresa Baldini (Popolari per l’Italia) preoccupata per l’incidenza dei furti e per le notizie che i media riportano in modo sempre più frequente a sfavore del comportamento dei ciclisti urbani. A questa mozione presentata al consiglio regionale lombardo hanno anche aderito Carlo Borghetti (PD) e Riccardo De Corato (Fratelli d’Italia). È un semplice appello, più che una proposta di legge strutturata, ma ha subito suscitato l’interesse di altri esponenti degli stessi schieramenti come la consigliera PD Maria Rosaria Iardino, mentre le voci contrarie, oltre a Fiab Milano Ciclobby, sono state al momento quelle di Lega Nord (Luca Lepore, consigliere Città Metropolitana e Milano) e, in contraddizione, di nuovo da Fd’I (Marco Osnato, anche lui nella giunta comunale). Bipartisan tanto i favorevoli quanto i contrari quindi, ma cerchiamo di andare oltre il dato di cronaca.

A cosa servirebbe targare le biciclette? Le motivazioni vanno tutte in direzione della identificabilità del mezzo, come se il ciclista fosse un inafferrabile fantasma, oltre che un pericoloso disturbatore della quiete pubblica. In effetti, in questo periodo c’è una campagna mediatica a sfavore del comportamento dei ciclisti in strada, che sarebbe sempre e comunque indisciplinato, oltre che impunito. A novembre, tanto per citarne una non da web, «Oggi» ha scomodato quattro pagine con tanto di eloquenti immagini sul tema, come ciclisti che passano col rosso, mentre parlano al telefono, o altro che si può ben immaginare. Targando le biciclette si potrebbe quindi ottenere un risultato win-win: sanzionare gli scorretti (da lontano, mentre scappano?) e proteggere le biciclette dai furti; “regolarizzare” questo veicolo così sfuggente, diffondere il suo uso. Ma serve davvero targare le biciclette per raggiungere questi obbiettivi? Forse sì, forse no.

Questi consiglieri promotori sembrano intanto ignorare che nel più ampio dibattito nazionale questa della identificazione delle biciclette è già parte di un più vasto disegno di legge (Riforma del Codice della Strada) il cui testo è già approdato in Senato. L’articolo 2, comma 8 della Riforma prevede già “l’individuazione di criteri e delle modalità per l’identificazione delle biciclette, attraverso l’apposizione facoltativa di un numero identificativo del telaio e l’annotazione dello stesso nel sistema informativo del […] Ministero delle infrastrutture e dei trasporti”. Se se ne sta già occupando il governo, perché mai dei consiglieri regionali dovrebbero saltare sulla poltrona con una loro mozione? Forse perché ignorano tutta la faticosa guerra di trincea combattuta con due governi (ma un solo parlamento), con tanto di battaglie dall’esito ancora incerto, come quella sul senso unico eccetto bici. Ignorano forse l’impegno da parte delle associazioni e dei movimenti, del gruppo interparlamentare amici della bicicletta, e di altri ancora affinché un codice così inadeguato da chiamare “velocipede” la bicicletta sia finalmente dotato dei più elementari standard di sicurezza, per amministrare al meglio la dissennata mobilità del paese con più automobili private al mondo per abitante (se togliamo Lussemburgo, Islanda e Monaco, che insieme non fanno Torino). Forse questi consiglieri preferiscono alimentare l’ennesimo caos normativo, quando invece potrebbero ricordare alcune semplici cose.

Se un cittadino ha un comportamento scorretto, sanzionabile può, anzi deve, essere sanzionato. Se un automobilista guida con il telefono all’orecchio, o senza cintura, è passibile di multa; quando passa con il rosso, lo è quanto un ciclista, o un pedone. Se si pedala sui marciapiedi, la multa arriva come a chi ci parcheggia sopra l’automobile, o il motorino. Il ciclista scorretto può essere fermato, e multato. Ma non si fa, tranne in casi davvero eccezionali. È invece la regola che anche altre piccole e grandi illegalità siano costantemente ignorate, in tema di circolazione. Come ad esempio il fatto che parlare al telefono senza auricolare o viva voce guidando qualsiasi veicolo sia ormai cosa normale; come è ormai scontato che esistano motociclisti senza silenziatore, che nessuno guardi più il tachimetro, e altro ancora. Se fossi in quei consiglieri lombardi, farei mozioni su come far rispettare il codice della strada almeno com’è adesso, piuttosto che inventarsene di nuovi. Dov’erano le loro mozioni quando il traffico della Lombardia è andato fuori controllo, rendendo la pianura padana la zona con il livello di particolato sottile tra i più alti al mondo, e un livello di inefficienza nella logistica tale da essere taciuto? Che mezzo usano tutti i giorni per andare a lavorare? Usano forse sempre la bicicletta, ed è per questo che promuovono provvedimenti che la riguardano?

Sono tutte domande retoriche, mi scuserete. Ho però una certezza. Targare, o identificare che sia non renderà più sicuro l’uso della bicicletta, non ne limiterà i furti e non metterà certo in salvo la legalità compromessa. I provvedimenti restrittivi nei confronti della bicicletta piuttosto ne deprimono essenzialmente l’uso, come avviene in Nuova Zelanda e in Australia, le due nazioni dove è obbligatorio il casco sempre e ovunque, afflitte da una notevole incidentalità (vedi, anche qui, il numero di auto pro capite di questi paesi). La targa lasciamola alle bici del bike sharing, per favore. Un uso consapevole e diffuso della bicicletta è un bene pubblico da tutelare, non un terreno di caccia normativo. Per diminuire l’incidenza dei furti, al momento tra i deterrenti più forti all’uso della bicicletta, ci vuole educazione, e una rete infrastrutturale efficiente, che al di là della sua efficacia sappia dire: la bicicletta ha eguali doveri ma sopratutto eguali diritti, ad esempio quello di essere rubata il meno possibile. Parcheggia pure qui, è più sicuro. Prova a usare questo lucchetto, a seguire questi consigli.

Se sono costretto a legare la bicicletta ai pali della segnaletica perché dove devo andare non c’è uno stallo adatto o che non sia nascosto dietro qualcosa dove i ladri pascolano, posso poi anche pensare di sfrecciare sul marciapiede, spaventando un pedone che magari ha appena lasciato l’auto in doppia fila dopo aver fatto solo due chilometri. Se posso lasciare l’automobile parcheggiata praticamente ovunque, senza temere ogni santa volta che lo faccio una bella multa, è facile pensare che quel signore lì che mi pedala davanti vada troppo piano, o che io possa accelerare quanto voglio in città, o usare il claxon come la bocca. Quando un pedone o un ciclista chiama la forza pubblica per segnalare un comportamento scorretto da parte di un conducente di un veicolo a motore, che tipo di intervento può realmente aspettarsi? Se fossi in quei consiglieri, proverei magari ad anticipare a livello regionale lombardo gli effetti di tutte le modifiche al Codice della Strada che riguardano le bici, non solo di una, sostenendo così il cambiamento in atto. O magari mi spenderei per una bella campagna di comunicazione e rieducazione sui temi della convivenza sulle strade – e sui marciapiedi, cominciando da Milano, dove sembrerebbe essercene bisogno. Altrimenti, potrei sentirmi autorizzato a declassarli da regionali a “provinciali”, un po’ come il ministro competente, Maurizio Lupi, che sostiene pubblicamente la specificità dell’Italia in fatto di mobilità, per di più solo quando gli conviene.
(P.S.: date comunque un occhio a cosa succede, in fatto di identificazione della bicicletta, in Giappone)

Foto | audaxsantacruz.blogspot.it

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