“Dai 7 Colli ai 7 Passi”, primo anno in sella con Simona e Daniele

“Dai 7 Colli ai 7 Passi”, primo anno in sella con Simona e Daniele

Quattro anni in giro per il mondo, pedalando in lungo e in largo per entrare in contatto con nuove culture, vedere dal vivo posti inesplorati, transitare sui valichi più alti percorribili in bici e scoprire nello sguardo delle persone incontrate mille altri mondi da portarsi dentro come prezioso bagaglio, oltre ai tanti chili caricati sulle borse fissate sui portapacchi. Simona Pergola e Daniele Carletti sono partiti il 12 luglio 2014 da Roma: “Dai 7 Colli ai 7 Passi” si chiama la loro impresa che durerà quattro anni in tutto e poi li riporterà al punto di partenza. Un viaggio circolare ricco di sfaccettature.

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Un’esperienza unica e totalizzante – raccontata giorno per giorno sul loro blog BeCycling, ricco di foto e diari di viaggio tutti da leggere – che Bikeitalia.it ha il piacere di sostenere e divulgare: la storia di due ciclisti urbani che si trasformano in cicloturisti e vanno alla scoperta del mondo racchiude in sé le piccole e le grandi narrazioni quotidiane che ogni giorno raccontiamo sui nostri canali. Un cicloviaggio che è possibile seguire passo passo e sostenere con donazioni o acquistando quadri a tema ciclistico dipinti ricalcando la loro impresa. E dopo il grande terremoto in Nepal, Simona e Daniele hanno raccolto l’appello di un’associazione di ciclisti nepalesi destinando loro parte delle somme che riceveranno in dono.

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È passato un anno ma sembra ieri, come ci raccontano Simona e Daniele dal Kazakistan, dove in un flusso di coscienza a ruota libera ripercorrono assieme mentalmente i fotogrammi di questo primo anno in sella: “Qualche giorno fa ci siamo concessi di vedere un film (azione che non compivamo ormai da moltissimo tempo!). È la storia di un gruppo di astronauti (ingegneri, biologi, fisici) che partono per un viaggio intestellare alla ricerca di un pianeta dove poter far insediare l’essere umano, dato che la nostra amata Terra è sempre più invivibile a causa delle azioni dell’essere umano stesso. La chiave del viaggio di questo manipolo di eroi è la dimensione tempo che nello spazio assume una connotazione diversa rispetto a quella della Terra. Il loro tempo si dilata rispetto a quello terrestre, nella loro dimensione un minuto corrisponde a dieci anni sulla terra. Ecco, così ci sentiamo noi. Sentiamo di aver viaggiato per un anno in un tempo completamente diverso, sentiamo che il modo di misurare il nostro tempo è cambiato, rispetto a chi abbiamo salutato a Roma”.

Viaggiare in bicicletta sembra avere dunque anche il potere “magico” di rallentare il tempo, visto che tutto è relativo: “Siamo partiti un anno fa, eppure ci sembra ieri. Ci sembra ieri il turbinio di pensieri, paure ed emozioni la sera prima della partenza. Ci sembra ieri Piazza del Campidoglio gremita di ciclisti, parenti ed amici. Ci sembra ieri l’Italia, le Alpi, la Francia, il primo passo, le salite del Tour de France e la stanchezza sui passi Svizzeri. Ci sembra ieri il saluto ai nostri genitori a Trieste, la pedalata in compagnia di Ulisse-Fiab lungo il confine sloveno. Ci sembra ieri la prima notte ufficiale fuori dal nostro Paese, la prima pioggia, la prima mattina, le prime lacrime di saluto, la prima pedalata verso questo viaggio che ci ha portato qui ad Almaty, in Kazakistan, dopo 12 mesi, più di 13.000 chilometri e 14 paesi”.

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E poi scoprire la vicinanza nella lontananza, le differenze che arricchiscono e non dividono: “Tante amicizie, sorprese, lingue sconosciute ormai un po’ più conosciute, strade meravigliose e strade difficili, faticose, attraverso montagne e steppe in pieno inverno, attraverso la Pamir Highway con i suoi 4.000 metri di quota, paesaggi lunari e strade remote, attraverso un’umanità così meravigliosamente diversa nelle tradizioni, nella cultura, nella vita, ma così straordinariamente uguale nella voglia di conoscere, nel desiderio di aprire la porta della propria casa al mondo, portato umilmente da chi, come noi, lo sta scoprendo”.

Al giro di boa del primo anno è tempo di fermarsi a riflettere: “Un bilancio? I bilanci li fanno le aziende, per valutare ricavi e perdite e capire dove investire il prossimo anno. Nel viaggio, nella vita, non esiste bilancio ma l’emozione di rivedere ciò che si è vissuto e come si è vissuto, e l’eccitazione per ciò che deve ancora accadere. Già perché il nostro viaggio in realtà è appena cominciato!”.

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Al racconto ricco, intenso e spontaneo di Simona e Daniele abbiamo aggiunto una breve intervista tecnica cercando di saperne un po’ di più su tappe e logistica.

Quanti chilometri fate al giorno in media? Quanti ne avete fatti al massimo?
Anche noi all’inizio del viaggio ragionavamo “in chilometri”. Poi con l’esperienza abbiamo capito che non ha molto senso e che in realtà l’unità di misura più indicativa sono le ore di pedalata effettiva. Durante una giornata media passiamo tra le 4 e le 5 ore in sella, una quantità che ci permette di pedalare tra i 50 ed i 100 km, a seconda delle tante variabili che caratterizzano una strada. Salite, discese, meteo, qualità dell’asfalto, sterrati ecc. In ogni caso cerchiamo sempre di ignorare il ticchettio dell’orologio, a meno che non abbiamo la scadenza di qualche visto da rispettare. Il massimo giornaliero che abbiamo pedalato è stato di 120 km, in Italia, durante le prime due settimane di viaggio!

Fisicamente eravate già allenati, ma quanto conta la testa, l’atteggiamento mentale, in un viaggio così lungo e così impegnativo?
L’allenamento fisico conta relativamente. Non siamo affatto ciclisti professionisti e prima di questo grande viaggio eravamo semplici ciclisti urbani. La testa è quella che realmente fa la differenza ed è necessario un estremo spirito di adattamento quando si è fuori per tutto questo tempo. Inoltre non bisogna avere paura delle emozioni, il loro flusso è continuo e variabile, in un attimo si passa dalle lacrime di felicità sulla cima di un passo alla disperazione pedalando lungo una gelida discesa con la paura di non trovare un riparo per dormire.

Il momento più difficile che finora che avete affrontato?
Forse il vero momento più difficile in generale è quando ti ritrovi a pensare e a immaginare le difficoltà che ti aspettano nel prossimo tratto di strada ancora prima di viverle. Ad esempio a bordo della nave sul Mar Caspio pensavamo alla steppa kazaka, il nostro primo approccio con l’Asia Centrale. Pieno inverno, 500 km nel nulla, strada pessima, temperature rigide e nessuna possibilità di rifornimento per acqua e cibo. Poi ti ritrovi catapultato nella realtà, e non hai più tempo di pensare a quanto sia difficile, sei solo concentrato ad affrontare i problemi e ad uscirne nel miglior modo possibile.

Difficoltà logistiche/burocratiche: problemi alle frontiere?
Le difficoltà legate alla burocrazia e ai visti sono in assoluto la cosa più fastidiosa. Quando siamo andati in ambasciata a ritirare il visto uzbeko ci è stato consegnato (apparentemente senza motivo) di 28 giorni invece che di 30, e quindi nonostante le nostre rimostranze ci siamo ritrovati con un gap di due giorni sul passaporto tra la fine del visto uzbeko e l’inizio di quello tagiko. Non sapevamo esattamente cosa fare, poi alla fine ci siamo presentati al confine e abbiamo semplicemente campeggiato per due giorni nella terra di nessuno, in mezzo alle due frontiere. Relax e riposo, mica male! E poi c’è la Cina, ottenere il visto è come giocare alla lotteria. Ogni ambasciata si comporta diversamente, e le regole cambiano senza preavviso da un momento all’altro. Una vera giungla dove siamo rimasti incastrati fin troppo tempo, tra lettere di invito, ambasciate e agenzie turistiche.

Infine, la straordinaria accoglienza delle persone che traspare dai vostri racconti e dalle vostre foto: una frase che vi hanno detto e che vi è rimasta impressa?
Sono tante le frasi che abbiamo sentito, le frasi che ci hanno colpito, quelle che ci hanno fatto piangere e quelle che non dimenticheremo mai. A volte però le frasi più cariche di significato sono quelle che non ci hanno mai detto! In Uzbekistan ad esempio siamo stati ospitati per una notte da una bellissima famiglia, simbolo purtroppo della bassa educazione di quella zona, dove l’analfabetismo non è cosa rara. Abbiamo sperimentato una forte barriera comunicativa, non parlavano né russo né turco, solo un dialetto uzbeko a noi incomprensibile. Non sapevano nemmeno scrivere su un pezzo di carta i loro nomi, eppure la loro felicità, l’entusiasmo, e la volontà di farci sentire gli ospiti d’onore ci è davvero rimasta impressa. Sono riusciti a trasmetterci forti emozioni senza parlare, a insegnarci quanto sia più importante avere voglia di comunicare che saper comunicare in una lingua comune.

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