Il ciclismo è morto

Era molto tempo che volevo scriverlo, ma in qualche modo, dentro di me, c’era un barlume di fiducia che mi spingeva a credere che la realtà fosse diversa.

Oggi, invece, sono convinto che il ciclismo sia morto davvero, ammazzato da una congiura di diversi soggetti che, come nelle Idi di Marzo, l’hanno pugnalato alla schiena lasciandolo a terra esangue.

La notizia della Camorra invischiata nella squalifica di Pantani al Giro del 1999 è stato l’annuncio finale e io, mi dispiace, non credo più a questo mondo fatto di corridori col polpaccio depilato ricoperti di marchette e destinati ad essere passati per il tritacarne dall’oggi al domani.

Sono un romantico, di quelli che appassionatamente non riesce a dimenticare il ciclismo eroico e le grandi imprese che oggi cerco nei fenomeni dell’Audax e dell’ultracycling, delle sfide con sé stessi fatte di polvere, sete, fame, caldo, freddo e tanti, tanti chilometri macinati controvento, con la neve o sotto la pioggia. Non riesco a dimenticare il ciclismo che unì e divise l’Italia, quello che rese i nostri produttori di biciclette i migliori del mondo, quello che distoglieva operai e contadini dall’idea di fare la rivoluzione per incollarli con l’orecchio alla radio per ascoltare la notizia di Bartali che vinceva il Tour e zazarazaz. Non riesco a dimenticare Adorni, Gimondi e Merckx, Saronni e Moser, né le partite con le biglie con le effigi dei corridori da schiccherare in spiaggia.

Chiedimi se sono Felice. #gimondi #Eurobike #bicycle #cycling

Una foto pubblicata da Paolo Pinzuti (@ilpinz) in data:

Poi sono arrivati gli anni ’90, il doping, Armstrong e Pantani e un senso di nausea che si è protratto per oltre un decennio. E poi è arrivato il 2016 e una serie di eventi si sono susseguiti uno dopo l’altro in maniera insopportabile.

Tutto è iniziato il 31 gennaio con i mondiali di Ciclocross a Zolder, in Belgio, in cui una cretina qualsiasi è stata beccata con una bicicletta truccata. L’orrore per me non è stato dettato tanto dall’aver scoperto che qualcuno faceva il furbo con strumenti meccanici non consentiti, ma che questo è stato l’unico modo in cui il ciclocross abbia ottenuto gli onori della prima pagina sulle testate giornalistiche sportive che sono nate proprio per parlare di ciclismo. Il tutto senza nessuna menzione su vincitori e vinti, sulle migliaia di persone accorse per trascorrere due giorni al freddo e coi piedi nella melma per assistere allo spettacolo di una disciplina tanto ingrata quanto emozionante.

Poi a febbraio è arrivato il Giro del Qatar e nella seconda tappa, un arrivo in volata ha provocato una carambola di corridori: gli organizzatori si sono bellamente dimenticati di segnalare uno spartitraffico nel rettilineo di arrivo e i risultati sono stati brutali. Sono cose che succedono se porti i corridori a pedalare in un Paese che non sa nulla del ciclismo, delle sue esigenze e delle sue regole. Ma, tanto chissenefrega: l’importante sono i soldi e la visibilità per gli sponsor.

A seguire c’è stata la notizia dell’addio alle corse di Alessandro Ballan, l’ultimo campione iridato italiano che, stanco dei continui controlli antidoping a vuoto che gli costarono prima una squalifica preventiva nel 2014 (con conseguente allontanamento dal suo team) tradottasi poi in assoluzione nel 2015, il 4 marzo ha annunciato di volersi ritirare dal ciclismo. Tra l’antidoping e il ciclismo, ha vinto l’antidoping.

alessandro-ballan

Poi è arrivata la Tirreno-Adriatico di questa settimana e la decisione di non far correre la frazione Foligno-Monte San Vicino a causa dell’allerta meteo. La decisione di annullare la tappa è arrivata con largo anticipo e la tanto temuta neve non si è fatta vedere. Mentre leggevo la notizia, non potevo fare a meno di portare nella mente l’immagine di quel giro d’Italia del 1965, con uno sconosciuto corridore della Maino che attraversa il passo dello Stelvio a piedi, sopra una montagna di neve. Ma si sa, quelli erano altri tempi.

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E ieri, la grande beffa: la notizia che la squalifica per doping di Pantani al Giro del 1999 sarebbe stata decisa per volontà della Camorra e non per reali colpe del corridore di Cesenatico. E, nonostante questa importante novità processuale, è arrivata l’archiviazione del caso da parte della Procura di Forlì. A distanza di 16 anni sulla vicenda che ha annullato la carriera e la vita del più grande scalatore italiano di tutti i tempi non è stata ancora scritta la parola fine.

Quello che fa più male di tutte queste vicende non è certo la presenza della malavita organizzata nel mondo delle corse e neppure la pochezza degli organizzatori delle grandi competizioni, quanto piuttosto la connivenza continua tra questi soggetti malintenzionati, le federazioni e la stampa di settore che da decenni trattano il ciclismo con disprezzo e disinteresse, nella speranza di trovare sempre un buon mostro da sbattere in prima pagina per coprirlo ben bene di infamie e darlo in pasto alla mediocre saccenza dei falliti che pontificano davanti al bancone del bar.

Su Pantani e su tutti gli altri sono stati versati fiumi di inchiostro tenendo l’indice fermamente puntato sul capro espiatorio di turno perché, si sa, non c’è niente che faccia vendere più copie che la caduta di un mito; il tutto nel più totale silenzio della federazione, degli organizzatori delle gare e degli sponsor che hanno sempre puntato alla propria autoconservazione, più che al futuro dello sport e alla cura dei campioni di oggi e di domani (salvo poi piangere lacrime di coccodrillo quando il grande campione muore).

tomba-di-marco-pantani

E se il ciclismo è morto non è certo per il doping, non è certo per quegli esaltati cerebrolesi che si strafanno di porcherie per arrivare centesimi alle granfondo presentandosi ai pasta-party con inoccultabili erezioni e gli occhi pallati. Il ciclismo è morto a causa di tutti coloro che hanno sacrificato i corridori e le corse alla cura del proprio orticello, della sicurezza della propria poltrona (i nomi metteteceli voi) e agli interessi di chi caccia il grano. Il ciclismo è morto perché la Federazione non si è mai preoccupata del fatto che i ragazzini italiani per correre ed allenarsi siano costretti a rischiare la vita in mezzo al traffico del paese europeo con il più alto tasso di motorizzazione.

E la messinscena, ormai non regge più. Non regge la storia del campionissimo di turno che vince e stravince per poi essere infilato nel tritacarne del giudizio mediatico prima di finire nel dimenticatoio perché la mediocrità umana preferisce credere che l’onestà non paghi e che solo chi bara può ambire alla vittoria.

E allora basta, ho deciso di fottermene delle corse e di tutto quel sistema che, invece che seguire lo sport, lo spettacolo e il sacrificio, insegue gli sponsor, ovunque essi vadano e gli scandali che servono solo a fomentare le maldicenze delle comari di paese. E se dal 1999 al 2005 nessuno ha vinto il Tour de France perché Armstrong fu ritenuto colpevole di doping, allora vorrà dire che, per me, dal 2006 in poi, nessuno lo ha più vinto e dal 2016 in poi nessuno lo correrà più.

0430 apaga la tele

Spegnerò la TV e volgerò lo sguardo altrove, dove il ciclismo è ancora vivo e, anzi, sta rinascendo con la stessa forza che un tempo fu del ciclismo eroico. È il mondo delle Criterium e dei Divide, dei randonneur e del ciclismo urbano, dei grandi viaggi in bicicletta d’avventura, di tutti coloro, insomma, che vogliono arrivare primi nella grande sfida con sé stessi, fosse anche solo la sfida di riuscire ad andare ogni giorno al lavoro con la bici del bikesharing.

donne in bicicletta izmir

Il ciclismo è morto. Lunga vita ai ciclismi.

Commenti

  1. Avatar Roberto ha detto:

    Bellissimo articolo che condivido appieno !

  2. Avatar jarno ha detto:

    Che dire Paolo, condivido al 100% quello che hai scritto, il ciclismo è morto e la colpa forse è anche un po’ di noi ciclisti amatoriali che invece di essere i portavoce e i difensori di un ciclismo pulito, in cui non c’è nulla da vincere ma solo da divertirsi, spesso si entra in una spirale negativa in cui bisogna per forza primeggiare (in pratica è come passare al lato ascuro della forza). Io giro sempre da solo, sia quando faccio cicloturismo sia quando vado in bdc, non mi è mai importato nulla nè della velocità nè dei tempi, mi diverto è basta, mi fermo quando voglio, visito paesi e cittadine che non ho mai visto, scatto centinaia di foto, vado su strade bianche e in salita (fortunatamente abito sul lago di Garda e quindi di posti da vedere ce ne sono migliaia), mi fermo nei bar e parlo con le persone che incontro, ogni giorno è una scoperta nuova…..questo per me è il vero spirito del ciclismo! Forse sono legato anche ad un ciclismo di altri tempi, dei tempi eroici, quello di cui mi parlava mio nonno che era del 1914 e aveva fatto in tempo a vedere tutti i grandi campioni.
    Ma anche tra molti amatori, perfino quelli della domenica, sento sempre le stesse frasi, “settimana scorsa da A a B ho impiegato 23 minuti e 30 secondi, questa settimana voglio farlo in 23 minuti perche’ tizio ha fatto 23 min. e 1 secondo”. E’ normale che il passo successivo sia qualcosa che ti faccia andare più veloce……….
    Comunque io sarò anche drastico nelle mie idee e ne vado fiero, ma la colpa di questo sfacelo anche a livello amatoriale è anche della federazione ciclistica, visto che in materia sono profano e magari quello che sto per scrivere non centra molto con l’argomento trattato ma è una cosa che mi rode abbastanza: possibile che se io voglio partecipare a delle granfondo NON competitive (per intenderci quelle che si concludono con un pasta party) mi serve il certificato di abilitazione allo sport agonistico rilasciato da un medico sportivo e per avere il certificato devo per forza essere tesserato ad una ASD? Ho chiesto a 2 centri medici della mia zona che volevo farlo e mi è stato risposto che devo essere iscritto ad una ASD (perchè così dice la federazione), cosa che vorrei evitare. Va be direte voi, ti iscrivi alla ASD e poi fai quello vuoi, OK ma non credo sia giusto….. Seconda cosa, visto che siamo in Italia e le cose si fanno sempre in qualche modo, questo è un esempio che a me ha fatto sbellicare dal ridere per un giorno intero: voglio iscrivermi ad una granfondo non competitiva di 170 km, con parecchie salite anche impergnative chiedo che documenti servono e mi rispondono “basta il certificato medico per ciclismo non competititivo o cicloturismo” in pratica quello che mi ha rilasciato il mio medico curante (visita medica + ECG). Chiamo per un’altra granfondo non competitiva 120 km in pianura no salite liscia come l’olio……”serve il certificato medico per ciclismo agonistico”. Chiedo lumi a chi ne sa più di me!
    Tanto per capirci: 1 – Maratona della Val camonica 2620 mt di dislivello (min 250, max 1000 mt) 120 km: certificato non agonistico
    2 – scalata della cima Coppi (stelvio bike) quota max 2760 mt dislivello 1550 mt, non serve nulla (va be’ è una scampagnata)
    3 – Sellaronda (va bene che specificano che la partecipazione è a proprio rischio) comunque si tratta pur sempre di fare i 4 passi delle dolomiti) nessun certificato richiesto
    4 – Granfondo “Tra valli e delizie” NON COMPETITIVA 140 km in pianura che più pianura non si può ( certificato x ciclismo agonistico)
    Scusate lo sfogo ma che senso ha tutto questo?
    grazie e buone pedalate a tutti

    1. Avatar Ezio Abate ha detto:

      Ti lascio il mio numero 333 8586551 e parli con uno che viaggia in bici per andare al lavoro per attraversare l’India o il Nepal o il Pakistan e il Tibet……………uno che forse ha imparato prima a pedalare che a camminare uno che andava a morosa bicicletta facendosi 60 km e poi tornava a casa felice spingendo sui pedali con tanta forza con la forza dell’Amore……chiamami… che facciamo una chiacchierata…

      Ezio Abate…

    2. Avatar Luciano ha detto:

      Anche se fai le granfondo per arrivare al pasta party ( come faccio io) lo sforzo cardiovascolare c’è comunque, per cui anche se non te la chiedono, una visita medica agonistica devi farla lo stesso, non per gli altri ma per te!!

  3. Avatar Dane ha detto:

    Non sono d’accordo sul fatto che il ciclismo sia morto e soprattutto che sia morto ora.
    Semmai al contrario si può dire che il ciclismo viva nonostante tutte queste porcherie, il che dimostra che sport affascinante continui ad essere.
    La questione della camorra poi non è una novità, io ne parlavo già dieci anni fa….

  4. Avatar Giovanni ha detto:

    Quoto. Per me il vero ciclismo da anni sono io con due seggiolini e una bici decathlon di acciaio da 100 euro che affronto le gobbe del sentiero di un parco urbano milanese gridando ai miei campioni:”attaccatevi alle mutande” .

  5. Avatar Mauro Nicoloso ha detto:

    Grande analisi! Complimenti!

  6. Il ciclismo è morto per tutta una serie di motivi legati al contesto, alle mutazioni sociali ed economiche intervenute negli ultimi decenni e legate all’accelerazione di un processo che ebbi a definire “domesticazione umana”. Se confrontiamo l’epoca d’oro del ciclismo, i decenni tra l’inizio del ventesimo secolo e gli anni ’50 (con l’inevitabile eccezione delle due guerre mondiali) abbiamo da un lato epoche in cui la bicicletta era un mezzo di trasporto di massa, le attività lavorative erano in prevalenza fisiche, l’individualismo e l’eccellenza fisica ancora ben viste nell’immaginario collettivo. Dall’altro, oggi, abbiamo una popolazione massivamente assuefatta al trasporto motorizzato, che svolge in larga parte lavori sedentari, fisicamente sovrappeso e nella quale l’individualismo è ormai un mito residuale. Questo risultato non poteva essere ottenuto senza un massiccio indirizzamento politico e culturale (tv e cinema in testa), tanto sottile e pervasivo da essere nei fatti inavvertibile. Gli sport hanno tutti, più o meno, subito un “azzeramento”, si sono salvate le discipline di squadra da svolgersi in ambienti al chiuso (calcio in Europa; baseball, pallacanestro e football americano negli USA) perché alimentate dalla vendita di biglietti, da mai sopite partigianerie localiste e più di recente dal merchandising. Un discorso a parte rivestono le discipline motoristiche, funzionali alla motorizzazione di massa e che trovano nelle massicce sponsorizzazioni (non solo da parte dei petrolieri e dei fabbricanti di automobili ma anche di industrie “filosoficamente affini” come quella del tabacco) la linfa vitale. Il ciclismo, per quanto costretto da dinamiche di squadra e da un percorso definito, continua a mostrare esseri umani che scalano le montagne con la sola forza dei propri muscoli, che viaggiano in sella ad un trespolo di pochi chili da una regione all’altra, da un paese all’altro. Un messaggio disfunzionale alla società dei consumi, e da questa fermamente avversato.

    1. Avatar Iacopo Sequi ha detto:

      Mi dispiace ma non sono d’accordo. Il ciclismo non è affatto morto, anzi: come l’erbaccia sboccia duro nel cemento delle città, e in provincia germoglia fresco a ogni generazione. Se è vero che forme nuove di mobilità su due ruote ne rappresentano un’evoluzione (e non la distruzione di una spinta sportiva), non si può negare lo spirito pioneristico di ciascun ragazzino che si mette in strada e sale il montarozzo vicino casa, poi ridiscende veloce. Le responsabilità ci sono ma come in ogni fatto politico vanno in capo a chi le detiene, e non a un intero movimento fatto di individui.
      Ogni ragazzo che per amore della bici e gioia nella pedalata contribuisce alla purezza del ciclismo come sport, oltre che come fenomeno di avanzamento sociale, porta un pelo della sofferenza ingiusta di Marco Pantani, un pelo della resistenza (e della Resistenza) di Gino Bartali, un pelo dell’energia e della carica sorridente di Fausto Coppi, un pelo della determinazione di Eddie Merckx. Grazie al suo individualismo, al contributo di sé per sé stesso, contribuisce a tenere in vita uno sport tanto bistrattato quanto resistente, e duro a morire.

      1. Avatar Luigi ha detto:

        Condivido in pieno.

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