“Sulla buona strada” dovrebbe regnare la pace e la sicurezza, ma sulle cattive strade italiane si continua a morire. La colpa non è del “pirata” di turno puntualmente additato come mostro salvo poi dimenticarsene a pochi giorni dall’accaduto: i ciclisti sono le vittime sacrificali immolate sull’altare della velocità, della noncuranza di chi guida, del menefreghismo, del rispondere alla chat di whatsapp mentre si è al volante. Il tutto in un Paese in cui la presenza dei motori è così massiccia che ormai non ci facciamo più caso: quand’è l’ultima volta che avete visto la strada dove abitate libera dalle auto? Probabilmente non lo ricordate, forse non è mai successo da quando avete memoria: e questo dovrebbe farvi riflettere.
È in questo contesto di “anno zero della mobilità” che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha dato il via, pochi giorni fa, alla periodica campagna “Sulla buona strada” per la sicurezza stradale: un battage pubblicitario istituzionale sui principali mezzi di comunicazione – web, radio, giornali – per invitare tutti gli utenti della strada a comportarsi seguendo le regole per non provocare danni a sé o agli altri, in stile “pubblicità progresso”. Ma lo spot dedicato ai ciclisti temo non abbia colto nel segno:
Visto che la maggior parte degli automobilisti che investe e uccide chi pedala adduce come scusa “non l’ho proprio visto” – se di notte per la scarsa visibilità, se di giorno per non meglio precisati abbagli o punti ciechi – realizzare uno spot istituzionale sulla sicurezza stradale in cui la malcapitata ciclista-protagonista è morta perché “non aveva le luci” non aiuta a far passare il messaggio che chi pedala è un utente fragile privo di protezioni ma piuttosto sottende implicitamente che, in fondo, se giri di notte senza luci in bicicletta “ci può stare” se ti mettono sotto. “Renderti ben visibile quando vai in bici può salvarti la vita”, recita la voce off dello spot con buona pace della sicurezza stradale attiva: il ciclista-senza-luci finisce sulla cattiva strada di chi non rispetta le regole e, a volte, muore. Attendiamo con ansia una seconda puntata sul caschetto da tenere sempre “ben allacciato”…
Ora, come ha sottolineato con un articolato commento al video in questione l’Associazione Salvaiciclisti Roma, sarebbe interessante avere una casistica degli incidenti in cui i ciclisti sono stati investiti e uccisi perché non avevano le luci d’ordinanza: sarà anche successo, ma individuare questa come “la” causa tanto da renderla protagonista di uno spot istituzionale sulla sicurezza stradale non aiuta a stemperare un clima che, verso chi pedala, si sta facendo e si è fatto sempre più pesante e grandguignolesco.
La vigilia di Pasqua è accaduto un episodio di cui ormai conoscete tutti i dettagli, perché è andato nei titoli dei telegiornali, ha campeggiato sulle homepage dei siti generalisti ed è stato ripetuto nei blocchi dei giornali radio: un gruppo di ciclisti è stato investito da un Suv sulla via Aurelia – km 17,7 – alle porte di Roma e uno di loro “non ce l’ha fatta”. Erano circa le 11 di mattina, dunque in pieno giorno, in un tratto all’aperto: almeno in questo caso le luci non c’entrano. Ma perché questo incidente ha guadagnato “punti” nei criteri della notiziabilità finendo in cronaca nazionale e non nei consueti trafiletti? Perché per la prima volta chi ha provocato l’incidente sarà processato per il nuovissimo reato di omicidio stradale, fresco di entrata in vigore. La donna alla guida del Suv dopo l’incidente era fuggita via (lesioni+omissione di soccorso) ma poi si era presentata spontaneamente al commissariato di Montespaccato per costituirsi.
Quindi del “ciclista morto” – ed è molto triste dirlo – al sistema dell’informazione abituato a soppesare le notizie per quanta eco mediatica possono avere e per il ritorno in termini di click/ascolti, alle esterne televisive davanti casa della vittima e all’immancabile domanda idiota su “che cosa prova?” fatta ai familiari di chi non c’è più, ecco: in realtà del fatto che sia stato investito e ucciso un ciclista a loro non importa nulla, nulla. Se c’è una cosa che dimostra questo ennesimo incidente mortale, in attesa del prossimo che statisticamente non tarderà ad arrivare, è che il reato di omicidio stradale non funge da deterrente e non induce a modificare i comportamenti di guida: o almeno non l’ha fatto nell’immediato.
Sulla buona strada i ciclisti non dovrebbero morire, perché chi l’ha costruita non l’ha fatta solo a uso e consumo dei mezzi a motore, per “fluidificare” il traffico, con corsie ampie che consentono la doppia fila e i sorpassi azzardati: no, sulla buona-strada-che-non-c’è i ciclisti continuano a morire. Si sente spesso parlare di “strada killer” ma la realtà che non si vuole vedere è un’altra: killer è chi preme il pedale sull’acceleratore e utilizza l’auto come un’arma. E non è necessario essere sotto effetto di alcol e droga per essere letali: basta un attimo e chiunque si può trasformare in un assassino. Chiunque.
Io spero solo che il sacrificio di Roberto Giacometti, così si chiamava il cicloamatore ucciso sull’Aurelia, faccia davvero aprire gli occhi a chi può e deve fare qualcosa per aumentare la sicurezza stradale: io continuerò a pedalare ogni giorno essendo consapevole che chi pedala è in equilibrio molto precario, sulla buona strada dove muoiono i ciclisti.
Carissimo Leonardo,
innanzitutto grazie per aver condiviso questo sfogo con noi: immagino che non sia affatto facile scrivere di questo argomento e scavare nel dolore indicibile che sta provando per questa morte violenta così assurda e così ingiusta. Non ero a conoscenza degli sviluppi del caso e ritengo che nello specifico questa sentenza rappresenti un fallimento perché non dà il giusto peso alle cose e non punisce adeguatamente un’azione sconsiderata di una persona al volante che ha causato la morte di un’altra persona in bicicletta. La mattina in cui con i cicloattivisti abbiamo portato in bicicletta un fiore e una ghost bike per ricordare suo padre lì sull’Aurelia c’ero anch’io, che da anni seguo questo tema non solo da cronista ma soprattutto da cittadino interessato a far sì che la sicurezza stradale diventi un’emergenza nazionale e vengano messe in campo politiche serie per combattere in modo concreto la strage stradale. Le mando un forte abbraccio, Manuel Massimo (Direttore responsabile di Bikeitalia,it)
Buonasera,
sono il figlio di Roberto Giacometti e con enorme disgusto nei confronti di questa magistratura italiana vi informo che la legge sull’Omicidio Stradale è una enorme cazzata, La signora che ha ucciso mio padre in bicicletta in un rettilineo di un Km dentro la corsia di emergenza di 1 metro, che è scappata con dentro la vettura sua figlia, che si è costituita ore dopo per paura di prendere 15 anni di carcere e infine che dopo sei mesi ha pubblicato su Facebook una foto con delle mucche in fila indiana sulla strada con scritto “Perche le mucche vanno in fila indiana e i ciclisti no?” e non contenta commentando che le mucche erano più intelligenti dei ciclisti…ebbene dopo tutto questo la “signora” non si farà neanche un giorno di carcere perchè il Giudice e il Pubblico Ministero hanno ritenuto congrua una pena di 3 anni e 8 mesi tramutati in servizi sociali. Con questa sentenza hanno autorizzato chiunque ad uccidere ciclisti, pedoni per strada perchè alla fine non si faranno neanche un giorno di carcere.Questa è la giustizia italiana, garantista verso chi si rende protagonista di atti criminali e omicidi.
Il dramma di invecchiare è pensare che quello che ti si palesa scandalosamente evidente lo noti solo te, e invece…
Per fortuna non sono esploso di incazzatura solo io davanti all’osceno televisore
Disgustosi !
L’80% degli adoratori del feticcio sfrecciano a Roma a 70 -80 km/h convinti di stare nel giusto e poi “nel caso” si auutogiustificano così.
LI MORTACCI LORO e di chi ha pagato lo spot