Come e perché Copenhagen è diventata la capitale delle biciclette

È una settimana che siamo a Copenhagen, una settimana in cui ho avuto modo di girare in lungo e in largo la città, con gli occhi del turista, con gli occhi di un giornalista che esercita abusivamente la professione e con gli occhi di chi si occupa attivamente delle politiche della mobilità.

Copenhagen Nyhavn

Nyhavn, un canale lungo il quale sedersi a bere birra e a fare incetta di raggi solari, protetti dal vento del nord.

Come ho già avuto modo di dire, Copenhagen è una città che si presenta diversa agli occhi di chi la visita. Come ogni capitale europea che si rispetti, è dotata di monumenti, chiese, castelli e musei. E come ogni altra città, è dotata di strade in cui gli abitanti, contrariamente ad altre realtà che tutti noi ben conosciamo, si muovono.

Copenhagen Rosenburg

Noi Italiani siamo abituati alla bellezza da percepire con gli occhi e che deve portare su di sè la tempra dei secoli se non dei millenni. Siamo abituati alle statue di Canova e alle cupole del Brunelleschi, ai Pantheon, ai castelli sforzeschi e alle piazze del Campo. Il nostro essere Italiani ci spinge a ricercare quello che conosciamo anche altrove, per riuscire a far rientrare il tutto nella logica binaria “bello”/”brutto”.

Copenhagen ponticello

Poi ti capita di finire in una città come Copenhagen e ti capita di guardarti intorno e scoprire che esistono altri parametri per giudicare una realtà. Perché ti può capitare di metterti a guardare edifici industriali degli anni ’60 che si stagliano all’orizzonte che nel contesto sono piacevoli, perché ci sono ponti realizzati pochi anni fa che ti lasciano a bocca aperta, ci sono strade con le strisce blu per terra che già di per sè contribuiscono alla creazione del fascino complessivo della città.

Copenhagen è una città in cui la bellezza è un concetto diffuso (e non concentrato in pochi capolavori) che fa rima con qualità della vita e, ovviamente, con la bicicletta.

Copenhagen FoodStreet

Un’isoletta un tempo abbandonata a sè stessa oggi ospita un concentrato di street food.

Per noi Italiani, la Danimarca ha una storia fatta di capisaldi: prima c’erano i vichinghi, poi è arrivato Amleto, Kirkegaard, poi l’occupazione nazista, Laudrup e gli Europei di calcio del ’92 e i registi danesi, tanto bravi, quanto cupi e pesantucci.

Ma queste informazioni non sono sufficienti per capire come la città sia arrivata ad avere l’aspetto che ha in questo momento e, in particolare, come sia arrivata ad avere 360 km di piste ciclabili (vere e connesse tra loro) che vanno da A a B qualunque sia il punto A e il punto B che si abbia in mente.

Copenhagen Ora di Punta

Cosa succederebbe se tutti quelli ritratti in foto decidessero di usare la macchina invece che la bici?

Per togliermi la curiosità sono andato a incontrare il Sindaco di Copenhagen per gli affari tecnici e ambientali.

Il palazzo comunale si trova in pieno centro e si entra così, senza nessuno che ti chieda nulla. È un edificio pubblico e in quanto tale è visitabile a piacimento. Anche nell’ufficio del sindaco, Morten Kabell, si entra così, senza che nessuno ti chieda nulla.

Morten è grosso e pelato, ha una barba rossa e sorride felice di incontrarci.

Il suo ufficio è essenziale e minimalista, pieno di rimandi alla bicicletta e sul tavolo ci aspetta una caraffa piena di caffè lungo.

Abbiamo molte domande e Kabell risponde puntualmente. Non svicola mai ed è preciso nei numeri e nei riferimenti.

Prima di tutto ci parla del dualismo biciclette e auto: lo spazio delle strade sono una risorsa scarsa e i cittadini hanno tutti ugualmente il diritto a disporre della stessa quantità di spazio a prescindere dal mezzo di trasporto utilizzato. Democrazia è una parola che ricorre spesso nella nostra conversazione.
Ma Kabell parte da un ragionamento di natura economica:

La conversazione assume una piega insolita: sembra di trovarsi di fronte a una specie di ciclotalebano (come ci chiamano in Italia), solo che il ciclotalebano di turno siede sullo scrano più alto del consiglio comunale ed è l’ultimo di una lunga serie: prima di lui il suo ufficio era occupato da Klaus Bondam, diventato poi direttore della Federazione Danese dei Ciclisti e fu proprio Bondam, nel suo mandato che esattamente 10 anni fa avviò la politica degli investimenti massicci nella ciclabilità. In 10 anni a Copenhagen hanno messo sul piatto 300 milioni di euro tra budget annuale e progetti straordinari, come lo “snake”, il ponte ciclabile che rimette in gioco il quartiere diIslands Brygge.

Visto che ne ho l’occasione, chiedo a Kabell le classiche domande del giornalista: come, quanto e perché?
E anche questa volta piovono numeri e fatti, invece che fuffa e opinioni.

Fatti e numeri, invece che fuffa e opinioni personali, dicevo, e mi dico che i Danesi sono fortunati ad avere dei rappresentati illuminati che operano per il bene della città. Ma Kabell mi interrompe e mi fa presente che le cose (anche se la prima pista ciclabile della città risale al 1912) non sono state sempre così e che c’è voluto un percorso di avvicinamento che ha visto coinvolta in primis la popolazione.

La storia sembra essere sempre la stessa, quindi: non esistono politici illuminati se non sono sostenuti dal popolo, poi si possono fare tutte le considerazioni del caso sulla presenza o meno di un’industria automobilistica nazionale, ma sta di fatto che qui i politici fanno ciò per cui hanno ricevuto mandato e, soprattutto, rispettano il mandato anche in caso di alternanza politica. Perché la costruzione di una città più vivibile è un’obiettivo che deve andare oltre il colore politico.

Il risultato ho modo di vederlo tornando verso casa.

Copenhagen strada qualunque

Un incrocio qualunque, una strada qualunque.

Mi ritrovo su una strada qualunque che si immette in un incrocio qualunque. Mi guardo attorno e noto che anche una strada qualunque in un incrocio qualunque può essere piacevole se resa piacevole. Come dice Kabell, costruire infrastrutture per la ciclabilità ha un costo ridicolo se paragonato a tutte le altre infrastrutture e la domanda non è “come faccia Copenhagen a permettersi infrastrutture di questo tipo” ma, piuttosto, “come possano permettersi le altre città di non farle”.

Mi dico che un giorno anche le nostre città saranno così e forse anche meglio.
Nel frattempo, godiamoci Copenhagen.

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Commenti

  1. Avatar Marshall ha detto:

    Deideologizzare la questione della ciclabilità urbana è cosa necessaria e urgente e questo “reportage” da Copenhaghen è un buon contributo.
    Le infrastrutture ciclabili sono davvero le meno costose, come costruzione e gestione, tra tutte le infrastrutture per la mobilità.
    Una pista ciclabile urbana, in rapporto alle persone che può far muovere, ha un costo di costruzione di circa 1000 euro al metro (a Copenhaghen come ovunque) 1/20 di una ferrovia metropolitana, per non parlare di oggetti ancora più costosi e spesso totalmente inutili come le autostrade urbane.
    Tuttavia il costo delle le piste i posteggi, la moderazione del traffico è relativamente basso ma non nullo. Inoltre tali interventi richiedono spazio, tempo, fatica, competenze tecniche e organizzative e sopratutto continuità e coerenza del sostegno politico per essere realizzati.
    In Italia girano troppi “esperti” di mobilità sostenibile che fanno “dumping” promettendo alle amministrazioni di fare le cose in tempi e costi irrealisticamente bassi con l’unico risultato concreto di delegittimare chi lavora seriamente, generare polemiche e frustrazioni ingiustificate e perdere ulteriore tempo.
    Per questo motivo la favola che le infrastrutture per la ciclabilità possano essere fatte subito e praticamente gratis ostacola pesantemente l’attuazione di politiche serie e coerenti si questo tema. Almeno tanto quanto la favola che tali infrastrutture siano economicamente insostenibili.

    1. Paolo Pinzuti Paolo Pinzuti ha detto:

      Caro Marshall,

      Visto che parli danari e di “dumping”, mi viene da pensare che il problema, più che i sedicenti esperti, viene soprattutto dalle PA stesse che con delle gare al ribasso fanno di tutto per mettersi nelle mani dei soggetti che non sono nelle condizioni oggettive di operare con qualità.

      Poi, ritengo che il sostegno politico ci sia o manchi sulla base della programmaticità delle operazioni: i comuni devono smettere di vivere la ciclabilità come un “nice to have” un qualcosa di non necessario da fare quando e se avanza qualche quattrino, ma deve diventare un pilastro portante. Per farlo, si deve ragionare in termini di rete, di programmazione pluriennale e di partecipazione.

      Almeno, a Copenhagen hanno fatto così e ha funzionato.

      Ma magari noi Italiani siamo più bravi a operare in modo diverso.

      1. Avatar Marshall ha detto:

        Caro Pinzuti
        Non c’è ovviamente un modo all”Italiana” per far bene le cose ma solo il modo serio che vediamo applicato a Copenhaghen.
        l dumping di cui parlo non è quello delle gare al ribasso ma sta a molto più a monte, nelle fasi di pianificazione e programmazione che giustamente riteniamo fondamentali ma che vengono inficiate dalla costante sottostima delle risorse necessarie (denari ma anche persone e organizzazione).
        Queste fasi cominciano già quando i partiti definiscono i programmi da sottoporre agli elettori, continuano quando gli organi politici si sono insediati, con la fase di definizione degli obiettivi strategici poi con la redazione dei piani di settore (nel nostro caso quelli per la mobilità ciclistica) e infine con la programmazione delle opere.
        E’ in queste fasi, che sono normalmente condotte dai politici eletti aiutati da consulenti e dai dirigenti apicali di loro fiducia che vengono definiti priorità, obiettivi e risorse ed è in queste fasi che si fanno spesso gli errori peggiori.
        E questi errori sono quasi sempre dovuti al fatto che in questa fase politici (di maggioranza e di opposizione) consulenti, dirigenti apicali trovano per diversi motivi, conveniente che costi e tempi siano sottostimati. Piani e programmi così fatti sono ovviamente irrealizzabili ma intanto si possono vendere sui media come se lo fossero. Inoltre eventuali oppositori sono tacitati dal fatto che il piano sembra costare pochissimo. Chi vince davvero in questo gioco sono i sostenitori ipocriti e gli oppositori velati della ciclabilità per i quali un bellissimo piano concretamente irrealizzabile sul quale magari impostare anche uno stupendo percorso partecipativo è davvero l’ideale.
        Alla fine quindi le carenze in fase di pianificazione e programmazione sono una conseguenza della carenza di un consenso politico sincero, duraturo e informato su questi argomenti.
        C’è davvero molto lavoro da fare.

        1. Paolo Pinzuti Paolo Pinzuti ha detto:

          Siamo qui per questo: per trasformare l’Italia in un paese ciclabile.

          United we stand, divided we fall.
          (vediamoci per un caffè di persona)

  2. Avatar BG_1907 ha detto:

    Questo reportage mi scatena due sensazioni: entusiasmo e rabbia.
    Entusiasmo perchè leggere delle analisi così lucide sulla mobilità ti fa pensare che non tutto è perduto. La “fredda” e razionale analisi costi-benefici che viene fatta è disarmante.
    Rabbia perchè in Italia temo non saremo mai capaci di tutto ciò. Bisognerebbe farlo leggere a tutti gli assessori alla mobilità delle nostre città, che a parole sono per la mobilità sostenibile, ma non appena un commerciante fa “buh”, via piste ciclabili e corsie preferenziali e pronti con una bella infornata di parcheggi …
    Congratulazioni per il lavoro e grazie per raccontarci queste cose.

  3. Avatar jess ha detto:

    Ragazzi, non ce la faremo mai. Ci hanno impiegato loro 40 anni per arrivare a questo punto! (hanno iniziato negli anni 70 giusto?) Noi dove vogliamo andare?. E’ così, inutile illuderci, ci sono menti come quelle di Esposito qui, mica Kabell.

    1. Paolo Pinzuti Paolo Pinzuti ha detto:

      Esposito lo mettiamo a posto a breve.
      Intanto guardiamo avanti ché la strada è lunga…

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