Empatia fa rima con deontologia: il convegno “Utenti deboli della strada e vittime: comunicare in modo rispettoso”, organizzato venerdì 24 maggio a Bologna e rivolto ai professionisti del mondo dell’informazione ha rappresentato un importante momento di confronto e di autocritica rispetto al tema della violenza stradale e ai (troppi) luoghi comuni giornalistici che ancora vengono utilizzati per raccontarla. L’iniziativa, realizzata nell’ambito della rassegna Bologna Bike City e riconosciuta dall’Ordine dei Giornalisti con 5 crediti formativi deontologici, ha affrontato diversi aspetti del problema: non solo una questione di lessico, dunque, ma anche di contestualizzazione e di sensibilità. L’incontro è stato condotto e moderato dal giornalista di Radio Città del Capo Jonathan Ferramola.
Il consigliere dell’Odg dell’Emilia-Romagna Silvestro Ramunno ha sottolineato il fatto che in un momento come questo il compito del giornalismo non è quello di “salvare il mondo” ma soprattutto di riconquistare credibilità ed è possibile farlo anche attraverso iniziative formative per recuperare la complessità e raccontare il tema della mobilità a tutto tondo, non partendo soltanto dal punto di vista dell’automobilista.
Simona Larghetti, presidente della Consulta Comunale della Bicicletta e cicloattivista di lungo corso, nella sua relazione ha messo nero su bianco gli errori che vengono commessi quando ci si approccia al tema della sicurezza stradale, partendo dai titoli degli articoli: così se l’autovelox “serve a far cassa” l’automobilista sarà portato a considerarlo uno strumento vessatorio e non rifletterà sulla sua reale utilità; attribuire alla fatalità (e non alla distrazione e alla velocità alla guida) le cause degli incidenti porta a una sostanziale rimozione delle responsabilità.
Marco Scarponi – segretario generale della Fondazione Michele Scarponi – ha spiegato alla platea di giornalisti seduti in Sala Tassinari a Palazzo d’Accursio che per un familiare di una vittima della strada vedere pubblicate le foto dell’incidente che lo ha reso tale è lo “stupro di un dolore”: se il diritto di cronaca va garantito, è vero anche che la deontologia impone alcuni paletti che spesso vengono invece bellamente ignorati soltanto per qualche click in più e senza alcuna empatia, in barba alla sensibilità giornalistica e al rispetto delle persone.
Il Centro Antartide ha raccontato per immagini due campagne di successo sulla sicurezza stradale: “Vacanze coi fiocchi” e “Siamo tutti pedoni”, con azioni di urbanismo tattico per attirare l’attenzione sul tema e dare maggior impatto alla sua comunicazione sui mass media. Nel suo intervento l’assessore alla Mobilità del Comune di Bologna Irene Priolo ha detto che: “L’auto non è un diritto, è una scelta” e anche che “Bologna, città medievale, non è fatta per le auto”. Due affermazioni in linea con un’idea di mobilità sostenibile ed europea, ma la realtà delle strade raccontata sulle cronache locali bolognesi mette in evidenza questi aspetti o, piuttosto, li minimizza?
Benedetta Cucci, giornalista del Resto del Carlino, muovendosi in bicicletta anziché in auto ha raccontato di riuscire a scoprire più cose e avere più spunti notiziabili; cambiare spesso strada e fare giri un po’ più lunghi le consente di mappare novità e tendenze in città. Il caporedattore della Repubblica Bologna Andrea Chiarini ha detto che un giornalista può sempre scegliere, soprattutto le parole da utilizzare, ammettendo però che i luoghi comuni giornalistici sono difficili da sostituire perché ormai sono entrati nel lessico di redazione. Per questo è necessario formare gli operatori dell’informazione, perché spesso l’errore nasce anche da una non perfetta padronanza del tema.
Andrea Colombo, consigliere comunale ed ex assessore alla Mobilità del Comune di Bologna, si è chiesto come mai le cronache siano infarcite di espressioni come “pedoni distratti” e “ciclisti selvaggi” ma si faccia fatica a scorgere gli “automobilisti assassini” autori in massima parte della strage sulle strade. Invece già il fatto di chiamarli “incidenti stradali” li considera fatalità e di fatto deresponsabilizza chi li provoca. Bisogna “dare un nome alle cose”, ha detto Colombo: ripartire dal concetto di “violenza stradale” e identificare il problema rappresenta il primo piccolo, grande passo per cercare di risolverlo.
Sarà una lunga battaglia. Di gente che pensa di avere più diritto a circolare perché utilizza un’auto ne vedo “a pacchi”. Se poi si continua a difenderla a priori…
Ben vengano convegni come questi