Forse inizio ad avere le visioni. Forse sono troppo stanca. Forse fa troppo caldo.
Il calore che sale dall’asfalto del deserto del Nullarbor in Australia offusca la vista e i miei occhiali da sole ormai gocciolanti di sudore sicuramente non aiutano. Eppure, se guardo bene all’orizzonte mi sembra di scorgere una piccola macchia gialla venire verso di me. Non riesco ad identificare cosa sia. Negli ultimi 870 chilometri ho solo incontrato macchine, road train, roulotte e moto. Oltre a qualche canguro che furtivamente attraversava la strada per poi perdersi nella distesa di terra che finisce nell’oceano.

Scruto ancora con attenzione. Forse una bici? Eppure una bici non può essere perché va troppo piano. Non ho la forza di accelerare perché sono ormai al 98esimo giorno di pedalata del mio giro del mondo in bici e so che se sforzo più del dovuto poi ne pago le conseguenze. Quindi rimango costante alla mia velocità da lumachina e proseguo dritta sulla mia strada avvicinandomi sempre di più a questa figura che mi sta venendo incontro dall’altra parte della strada.
Ora che siamo più vicini riesco a identificare meglio di cosa si tratta: è un signore giapponese con un giubottino giallo catarifrangente che a piedi si sta trascinando un carretto nel deserto. Continuo a credere di avere delle allucinazioni ma più mi avvicino e più lo vedo distintamente.
Sto lottando contro il tempo perché sto cercando di fare il mio giro del mondo in meno di 152 giorni e quindi non mi posso fermare per capire cosa ci fa un giapponese nel deserto. Non posso. Perdo tempo. Perdo minuti preziosi. Perdo il ritmo.
Ma in realtà non ho neanche finito di pensare al tempo che perderei che gli mostro un enorme sorriso, attraverso la strada e mi dirigo velocemente verso di lui. Ricambia il sorriso mentre appoggia il suo carretto al lato di questa lunga strada che attraversa il deserto del Nullarbor, che si chiama così proprio perché per oltre mille chilometri trovi il nulla, solo qualche arbusto che spunto dalla terra bruciata dal sole e dal vento.
Ci scrutiamo e ci sorridiamo. Provo a parlargli in inglese perché sono curiosa di sapere cosa sta facendo, da dove arriva, cosa pensa, che emozioni prova, se ha caldo, se è stanco, se ha fame. Vorrei bombardarlo di domande ma non parla inglese e mi rendo subito conto che non è necessario perché la lingua dei segni è universale e con le nostre espressioni del viso riusciamo a comunicare molto di più che con le parole. Mi apre una grande mappa e mi fa vedere il suo percorso: è partito dal Giappone per spostarsi in Australia da Perth a Melbourne per poi arrivare a Sydney e poi il suo dito attraversa tutto il mondo.

Lo riguardo e gli sorrido di nuovo. Anche lui sta girando il mondo. Sta girando il mondo trascinandosi un carretto con le poche cose che gli servono per sopravvivere. Gli lascio delle cose che ho con me, del tonno, della cioccolata, delle bibite e lui mi ringrazia con un arigato che mi apre il cuore. Mi tira fuori un’enorme bandiera giapponese con tante firme sopra e mi fa capire che vuole che anche io ci metta la mia firma. Che onore, penso tra me e me. Quella bandiera è una della poche cose che si porta dietro nel suo viaggio e io sarò con lui per il resto del suo viaggio.
Penso a che incontro incredibile mi ha riservato questo deserto così arido e così duro ma nel contempo così affascinante.

Ci guardiamo di nuovo e mi innamoro subito della vivacità dei suoi occhi, dell’espressività che trasmettono, di quello che riesce a comunicarmi con lo sguardo. Ha un paio di pantaloncini corti che penso gli abbia regalato qualcuno lungo la strada, quelli che i ragazzi mettono per stare in spiaggia, una maglia bucherellata di colore scuro e sopra un giubbottino giallo catarinfrangente. Gli guardo i piedi pensando che abbia un paio di scarpe tecniche per camminare tante ore trascinandosi quel carretto dove ha tutta la sua vita e invece ha i piedi scoperti perché ha indosso delle infradito bucate. Sorrido dentro di me e mi chiedo come possa camminare tutto il giorno con quelle infradito. Ha un paio di occhiali da vista e i capelli folti neri. Non riesco a dargli un’età. Ha la carnagione scurita dal tanto sole preso. Ma ciò che mi colpisce di più è il suo sorriso.
Quel sorriso felice di chi nella vita ha deciso di seguire la propria strada anche se sembra assolutamente assurda per il resto del mondo. Quel sorriso di chi sta vivendo la propria vita senza schemi, senza convenzioni sociali, senza paura. Quel sorriso di chi ha deciso chi voleva essere e non mente a se stesso percorrendo una strada diversa. Quel sorriso di chi è curioso della vita, del mondo, di se stesso. Quel sorriso vero, sincero, autentico, vivo.
Quel sorriso non potrò mai dimenticarlo e anche se è stato un incontro fugace mi ha fatto ancora di più capire quanto nella vita solo se siamo noi stessi e abbiamo il coraggio di seguire la nostra strada possiamo vivere davvero la vita che vogliamo, senza se e senza ma.
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