Venerdì 3 febbraio è per noi tempo di lasciare la spiaggia di Ngwesaung, sulla costa del Myanmar, dove le gambe hanno trovato il meritato riposo, l’abbronzatura da ciclista si è un pò uniformata e soprattutto i bagni nell’oceano indiano hanno mitigato il caldo intenso degli ultimi giorni sui pedali.
Fare la stessa strada per due volte non ci piace mai, specialmente se è tutta un saliscendi, come in questo caso. Da Ngwesaung, però, non abbiamo alternative: giriamo le biciclette, salutiamo la spiaggia e ripartiamo alla volta di Pathein, 55 km più ad est.
Il dislivello positivo di 50 m, affrontato con il fresco della prima mattina, è un gioco da ragazzi. Per fare almeno una variazione nel percorso, dalla strada principale svoltiamo a destra pochi chilometri prima del ponte che porta a Pathein e andiamo a prendere la chiatta che ci traghetterà dritti in centro.
Con noi, sulla piccola imbarcazione, due monache buddiste nei tipici vestiti rosa, una dozzina di birmani, qualche motorino e delle povere galline ancora vive legate a un motorino a testa in giù e trasportate verso una triste fine.
Gironzoliamo per l’ormai conosciuta Pathein e ci rilassiamo in vista dei chilometri del giorno seguente: 96 fino alla cittadina di Pantanaw. I primi 35 sono su una strada già percorsa e per di più la più brutta fatta dall’ingresso in Myanmar: l’asfalto, in alcuni tratti, è pieno di buche e dissesti e il traffico è piuttosto intenso perché siamo sulla direttrice Pathein-Yangon.
Mappa
Altimetria
Poco oltre Kangyidaunt svoltiamo a destra in direzione di Einme. Così facendo abbandoniamo di netto il traffico, procediamo più spediti perché la strada è in buone condizioni e ci risparmiamo 3 km sul totale di quelli che portano a Yangon. A lato della strada si stendono risaie, allevamenti di pesci, campi coltivati, canali di irrigazione e semplicissime palafitte di paglia.
Dopo Einme abbiamo altri 30 km prima di ritrovare la Pathein road. Quando la incrociamo svoltiamo a destra e facciamo una decina di chilometri fino a Pantanaw, altra cittadina sorta ai margini di un fiume. E’ caotica e polverosa, punto di sosta per i numerosi autobus che percorrono la tratta Pathein-Yangon, con i quali, il giorno seguente, condividiamo la strada.
Per Yangon non troviamo rotte secondarie fattibili in una giornata, quindi, per gli ultimi 90 km che ci separano dal cuore economico del paese, restiamo sulla strada principale, dove comunque l’asfalto è in condizioni accettabili e il traffico non eccessivo.
L’ingresso nella periferia è piuttosto faticoso a causa di alcuni chilometri di strada dissestata e della viabilità con poche regole. Troviamo alloggio nei pressi della centralissima Sule Paya e ci godiamo un paio di giorni di ferie dal sellino visitando i mercatini di cibo di strada, quelli di artigianato, le incantevoli pagode buddiste e gli edifici risalenti all’epoca del colonialismo inglese.
A Yangon capita ancora più di frequente che nel resto del paese di vedere bambini e ragazzini al lavoro: nei ristoranti, nelle guest house, nelle piccole botteghe e bancarelle in strada. Tantissimi anche gli studenti, che nelle loro divise bianche e verdi vanno o tornano da scuola con i contenitori cilindrici di alluminio per il pranzo.
La ripartenza da Yangon su Banyar Dala road, Lay Dauk Kan road e poi n.2 Main road non è piacevole, per il traffico intenso, lo smog della città, la sporcizia della periferia industriale e soprattutto l’asfalto disastrato. A 30 km da Yangon ritroviamo le campagne tipiche del Myanmar, con campi coltivati, stagni frequenti e palme.
Oggi è anche scaduto il nostro visto birmano e ci troviamo a viaggiare in overstay (pratica che in Myanmar è ben più diffusa rispetto all’estensione del visto): il turista può restare nel paese fino a 90 giorni oltre la scadenza del visto pagando una penale di 3$ per ogni giorno. Se questa procedura è assolutamente collaudata presso l’aeroporto di Yangon, da cui la grande maggioranza dei turisti riparte, lo stesso non si può dire con certezza delle frontiere via terra. Abbiamo letto testimonianze di cicloturisti nella nostra stessa situazione che non hanno incontrato problemi a pagare l’overstay al confine di Myawaddy-Mae Sot, con la Thailandia, e ci affidiamo speranzosi a queste poche righe scovate sul web.
Resta però il rischio di incontrare, come già è successo, immigration check points sul percorso, dove i militari controllano passaporti e visti dei turisti in transito: pare che questi abbiano facoltà di rispedire a Yangon gli irregolari. Le guest house, inoltre, non sempre accettano i turisti in overstay.
Noi comunque siamo partiti ottimisti in direzione Thailandia, cercando di impiegare pochi giorni per raggiungere Myawaddy.
A Saingdigon ci immettiamo sulla Yangon-Mandalay Highway, a tre corsie per senso di marcia e in perfette condizioni. Facciamo quindi spediti gli ultimi 30 km per Bago, in compagnia di parecchi autobus, camion e auto.
Pegu (o Bago) è ricchissima di architetture appartenenti a diverse religioni: ovviamente pagode buddiste, ma anche coloratissimi templi indù, chiese (cattoliche e protestanti) e moschee. Alcune guest house hanno la licenza per ospitare i soli cittadini birmani e ci liquidano con un secco ‘no’, ma poi troviamo un alloggio economico nei pressi del ponte della città, vicino alla rumorosissima strada principale.
Ci dirigiamo poi verso Kyaikto, in direzione est. Per farlo percorriamo altri 20 km sulla Yangon-Mandalay Highway e poi andiamo a destra sulla NH-8 o Mawlamyaing Highway, che torna ad attraversare paesaggi rurali. All’altezza di Waw si costeggia per qualche chilometro un fiume coi suoi scenografici attraversamenti pedonali in legno. È oltrepassato il fiume Sittang, però, che lasciamo la Regione di Bago, entriamo nello Stato Mon e incontriamo finalmente un paesaggio diverso: la strada inizia ad ondulare tra una serie di bassi rilievi verdissimi che spezzano la monotonia delle ultime pianure.
Il dislivello positivo per Kyaikto è di 400 m e i chilometri 90. Quando raggiungiamo la cittadina sono le 15:30 e ci mobilitiamo subito per andare a visitare la Golden Rock Pagoda, un enorme macigno dorato in equilibrio precario sul monte Kyaiktiyo, importante meta di pellegrinaggio per i buddhisti.
Troviamo un passaggio per Kinpun, 11 km più a nord, ma la raggiungiamo solo alle 16:40 a causa di un guasto alla frizione del furgoncino che ci aveva caricati. Da qui l’unico modo per raggiungere il masso dorato è quello di salire su dei camioncini stipati di pellegrini che si arrampicano per 45 minuti su una stradina sterrata e poi proseguire a piedi per circa 15 minuti. L’ultima corsa per il ritorno è alle 18: capiamo che siamo arrivati troppo tardi e, sconsolati, torniamo a Kyaikto per la serata.
Il giorno seguente decidiamo di ripartire comunque e raggiungiamo Thaton attraversando una serie di villaggi molto caratteristici, con palme alte, risaie, stupa e pagode in abbondanza, casette in legno e paglia e tea house a bordo strada.
Il paesaggio è molto verde e i continui ma lievi dislivelli rendono tutt’altro che noiosa la pedalata.
Percorriamo questi 70 km nella mattinata e poi trascorriamo il pomeriggio a Thaton, dove si sta svolgendo un festival per il settantesimo anniversario della Giornata Nazionale Mon, l’etnia che da il nome alla regione. Alla Hnee Pagoda si festeggia con bancarelle di cibo di strada, canzoni e danze, luci abbaglianti e pasti gratuiti.
Vediamo lo stesso clima festoso quando pedaliamo verso Mawlamyine (o Moulmein): centinaia di motorini o van stipati di mon vestiti in bianco e rosso che sventolano la bandiera mon. In diversi villaggi distribuiti sui 70 km si celebra la ricorrenza con musiche tradizionali.
La mattina trascorre rapida tra queste distrazioni e gli scorci continuamente nuovi che la strada offre, così sinuosa. Alla nostra sinistra svettano una serie di picchi rigogliosi e di frequente delle scalinate vi si arrampicano fino alla punta dorata di uno stupa.
L’ingresso a Moulmein è segnato dal lunghissimo ponte sul fiume Saluen, da cui si apprezzano già il verde della città e le pagode che orlano il crinale della piccola altura al suo centro.
L’importante passato coloniale di Mawlamyine emerge dal gran numero di maestosi edifici risalenti a fine Ottocento e inizio Novecento e dalle moschee costruite per gli ufficiali musulmani e per i funzionari pubblici della Birmania britannica.
Per la prima volta abbiamo difficoltà ad essere accettati in hotel, a causa del nostro visto scaduto. Riccardo viene spedito dalla receptionist al comando di polizia più vicino per sistemare la questione, ma se ne torna presto sconsolato perchè respinto: l’ufficiale sta dormendo e non può riceverlo. Saranno poi una serie di telefonate a risolvere la faccenda.
Da Moulmein puntiamo poi verso Kawkareik, l’ultima città birmana in cui pernotteremo.
Circonvalliamo da nord la collina delle pagode e imbocchiamo la strada per Zar Tha Pyin, attraversando una serie di ponti metallici sospesi mozzafiato. Subito dopo il villaggio svoltiamo a destra su una strada che per alcuni chilometri ci inganna con un asfalto nuovissimo. Ben presto, però, capiamo di esserci infilati in 23 km sterrati, senza alternative se vogliamo raggiungere Kawkareik in giornata.
La strada è un cantiere aperto e le auto o i furgoni di passaggio alzano nubi di polvere che non ci fanno respirare e ci ricoprono di sporcizia, che, sul nostro sudore, attacca perfettamente. Siamo in aperta campagna, sullo sfondo solo palme, qualche gregge e capanna.
I lavori stradali sono in corso su diversi segmenti e immaginiamo quindi che le condizioni di questa scorciatoia miglioreranno a breve. Quando ritroviamo la strada principale, il Kawkareik-Hpa-an segment, ci diamo una spolverata col compressore di una piccola stazione di servizio e poi affrontiamo gli ultimi 33 km di sali-scendi.
L’ultima tappa in Myanmar, infine, ci regala una scenario collinare molto diverso dai paesaggi precedenti. Subito prima di Kawkareik un bivio impone di scegliere tra due strade parallele: quella a sud è la nuovissima Asia Highway, con l’asfalto perfetto ed un margine stradale largo circa 1 m; quella settentrionale è la vecchia strada, senza traffico, ma 20 km più lunga e piuttosto mal ridotta. Prima che esistesse l’Asia Highway veniva utilizzata a giorni alterni per senso di marcia. Per praticità scegliamo la nuova arteria, in cui il traffico, di prima mattina, non è per nulla fastidioso. Saliamo in vetta (500 m) dopo una ventina di chilometri, tra una curva e l’altra.
Poi raggiungiamo Myawaddy, la polverosa e poco attraente città di confine. Abbiamo con noi le fotocopie del passaporto, del visto e del timbro di entrata, oltre che i contanti per pagare i giorni di overstay (in khyats o dollari). La procedura è assolutamente rapida e indolore e in men che non si dica siamo sul Myanmar-Thailand Friendship Bridge. Esattamente alla metà del ponte un semaforo inverte il senso di marcia del traffico: la guida a destra cede il posto a quella a sinistra. Eccoci in Thailandia.