Siamo in India da ormai 350 km. Dopo aver visto Jaipur, o città rosa, il Taj Mahal di Agra e gli affascinanti palazzi di Fatehpur Sikri, mete turistiche collaudate dall’afflusso di milioni di visitatori ogni anno, ci inoltriamo nella parte centrale dell’Uttar Pradesh. Questa zona è dominata dall’industria pesante e conta alcune tra le città più inquinate al mondo, come Kanpur e Lucknow.
Il turismo è praticamente nullo, non incontriamo occidentali e di conseguenza le strutture ricettive della zona hanno livelli di pulizia e igiene bassissimi.
Dopo esserci fermati per tre giorni a Bah per la prima seria intossicazione alimentare e aver visitato le meraviglie di Bateshwar, continuiamo per Etawah sulla via n. 62. L’asfalto è buono e il traffico non eccessivo. Sulla strada si susseguono attività e bancarelle, alternate a campi coltivati. Dovunque ci fermiamo per una pausa o per fare salire la glicemia di Chiara, ci si forma attorno un capannello di almeno dieci persone. Per lo più ci fissano e basta, ma qualcuno tenta di intavolare conversazioni basiche. Alla curiosità degli indiani non riusciamo proprio ad abituarci, forse perché non ci lascia lo spazio necessario per decomprimere dallo stress del traffico.
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Altimetria
A Etawah gli hotel sono pienissimi e giriamo tutta la città prima di trovare una stanza libera.
I prezzi per le doppie vanno dalle 400 rupie (6 €) fino a 2000 e oltre (28 €), ma gli standard di pulizia sono comunque sempre tendenti al basso. Anche i pasti sono economici e vantano una buona varietà; il cibo vegetariano va assolutamente per la maggiore. Nelle città più piccole, però, non esistono veri e propri ristoranti, ma piuttosto tavole calde con pentoloni in bella mostra e scarse condizioni igieniche. Qui è impossibile chiedere di ridurre il piccante perché i piatti sono preparati in anticipo: ci cola il naso e gli occhi piangono per tutta la cena!
Da quando l’abbiamo scoperto andiamo matti per il chai, una specie di thè unito a latte e varie spezie (masala) servito in piccole tazzine di terracotta. Soprattutto nelle regioni settentrionali dell’Uttar Pradesh, dove iniziamo a sentire i primi freddi invernali, il chai ci fa compagnia nelle pause di metà mattina o di ipoglicemia.
Le tre giornate che seguono l’arrivo ad Etawah sono piuttosto noiose perché le trascorriamo sull’autostrada per Lucknow. Fino a Kanpur la carreggiata ha tre corsie per senso di marcia e ci sentiamo tranquilli pedalando nel suo margine sinistro (l’India in quanto ex colonia britannica prevede la guida a sinistra), anche se capita spesso che ci siano mezzi pesanti in sosta per cui ci tocca allargarci verso il traffico. Indossiamo rigorosamente la pettorina gialla con le strisce catarifrangenti per farci notare dalla distanza e ci copriamo naso e bocca con il collare perché tra polvere e inquinamento ne usciremmo intossicati.
Spesso la carreggiata viene affiancata da strade di servizio dove riprendono vita le piccole attività indiane: la vendita di frutta e verdura, il cibo di strada, i barbieri e dei piccoli market. In queste vie secondarie non mancano mai i dossi e l’asfalto dissestato, quindi non le prediligiamo necessariamente allo stradone.
Il primo giorno percorriamo circa 75 km fino a Sikandra e più precisamente, su consiglio della gente del posto, fino all’hotel Surya. Quest’ultimo, però, a dispetto del nome, è solo un ristorante e a Sikandra non ce ne sono altri. In India bisogna stare pronti a scherzi del genere, lo stiamo imparando sulla nostra pelle. Allora torniamo indietro di 12 km fino ad Auriya, dove troviamo una struttura per dormire. A fianco, su un palo della luce, è stato installato un megafono che trasmetterà messaggi di propaganda elettorale a volume folle fino alle 22.
Il secondo giorno i km sono 98 per Kanpur e particolarmente difficili nell’ingresso in città, perché il traffico è incredibile in questo inquinatissimo centro industriale che conta 2500000 abitanti. Con nostra grande sorpresa troviamo per qualche chilometro una pista ciclabile delimitata da paletti che le moto rispettano.
Ci rifugiamo in un albergo in The Mall Road esausti. Anche lasciare la città, l’indomani, non è uno scherzo. Attraversiamo uno scenografico ponte sul Gange e poi pedaliamo insieme a tante altre biciclette fino ad Unnao. Da qua il traffico di mezzi pesanti si infittisce e la strada si riduce a due sole corsie, senza contare che spesso motorini e biciclette vengono in senso contrario. Dopo una settantina di chilometri e tanto nervoso per la guida sregolata degli indiani siamo a Lucknow, la capitale dell’Uttar Pradesh. L’aria è pesante e il cielo tende alle tonalità del grigio più che a quelle dell’azzurro. L’ingresso in città è più lento e snervante dei precedenti, le strade sono un susseguirsi di cantieri e buche.
Mahatma Gandhi Road, la via principale della città, ci sorprende con negozi alla moda e qualche ristorante sopra alla media indiana. Neanche il giorno di pausa, comunque, regala vero relax qui in India perché non esistono viali in cui fare passeggiate o parchi puliti che consentano di allontanarsi dal chiasso della strada.
Dopo Lucknow ci fermiamo nella vicina Barabanki perché Faizabad, la successiva città che offra alloggi, è troppo distante e la raggiungiamo dopo 35 km sulla NH-27. Siamo capitati in India nel periodo dei matrimoni (ci spiegano che per i successivi tre mesi poi non saranno più celebrati) e tutte le strutture ospitano cerimonie colorate e chiassose fino alle 23:00.
La mattina successiva siamo pronti, anche se non troppo riposati, per i 110 km di autostrada che ci porteranno ad Ayodhya, la città natale di Rama, sacra tanto agli induisti quanto ai buddisti e gettonata meta di pellegrinaggio.
Quando visitiamo i suoi templi e i magnifici ghat lungo il fiume, avvolti dalla nebbia di questo inizio dicembre, l’atmosfera di sacralità ci coinvolge e affascina. La città è disseminata di architetture religiose, altari, monaci, persone in meditazione e visitatori (ma di occidentali sempre e solo noi).
Più tardi l’autostrada per Basti ci riporta coi piedi per terra tra i camion e i motorini indiani e il loro abuso di clacson.
Il momento più piacevole della giornata nelle nostre pedalate indiane è indubbiamente il pranzo, quando nel percorso spuntano fuori un dhaba o un family restaurant coi tavolini nel verde e la cucina in un ambiente separato dalla strada (succede davvero di rado). Cerchiamo sempre di mangiare e dormire nelle migliori condizioni igieniche possibili: ci disinfettiamo con un battericida prima dei pasti, ci ricopriamo di repellenti per gli insetti, montiamo la tenda anche nelle camere d’albergo se le zanzare sono troppe per schiacciarle tutte, beviamo solo acqua minerale e a volte con quella ci laviamo pure i denti. L’India però vince ogni precauzione e ci costringe a qualche giorno di pausa e riso bianco per ristabilire un precario equilibrio intestinale.
Da Basti lasciamo l’autostrada e prendiamo la via n.64 in direzione di Pharenda, la nostra ultima tappa in territorio indiano. La giornata parte in maniera scoraggiante, dato che i primi dieci chilometri sono di asfalto disconnesso, buche e traffico pesante. Siamo ricoperti di sabbia e procediamo pianissimo. Poi, inaspettatamente, le condizioni della strada tornano buone e pedaliamo spediti nonostante la nebbia fittissima. Il paesaggio è rurale e popolatissimo: è sabato, i bambini giocano a volano a margine della strada e i grandi si scaldano in capannelli attorno a piccoli fuochi. Notiamo più moschee e donne coperte dal burqua in questa regione. A Campirganj troviamo il primo vero ristorante di questi 70 km e ci fermiamo per il pranzo, mentre lo staff è indaffarato a installare fiori e striscioni coloratissimi per il matrimonio che si celebrerà la sera. Pharenda dista da qui solo 10 km che si snodano tra una bella foresta zeppa di scimmie.
Anche questa città non riserva nessuna gioia per noi turisti, ma nugoli di zanzare che si leccano i baffi al nostro passaggio. Riempiamo il pomeriggio a chai e letture sull’ormai vicinissimo Nepal. Al risveglio partiamo spediti per affrontare i 50 km di India che ci separano da Sonauli, la città di confine. Attraversiamo delle campagne tranquille e floride, ma la nebbia anche oggi appanna il paesaggio. La dogana è preceduta da chilometri di camion in coda, nelle due corsie di marcia regna il caos più assoluto e gli uffici dell’immigrazione sono dislocati senza criterio in edifici insospettabili.
Ci rendiamo conto che negli ultimi giorni abbiamo pianificato le tappe in modo che ci portassero fuori dall’India il più velocemente possibile. Di questo paese ci ha stressati il traffico, ci hanno esasperato tutti gli occhi puntati continuamente addosso e ci hanno messo in difficoltà le scarse condizioni igieniche. Se come destinazione turistica la troviamo una meta interessante, ci sentiamo di consigliare l’India solo al cicloturista provvisto di infinita imperturbabilità d’animo.