Kathmandu. È ormai il 25 dicembre, ma qui l’atmosfera natalizia è solo un artefatto, con brutte copie dei nostri alberi, addobbati senza passione nei ristoranti e caffè per turisti. Allora noi decidiamo di farci una bella passeggiata sulle montagne nepalesi per ritrovare, se non l’atmosfera natalizia, almeno il clima rigido che ci aspettiamo dal Natale.
Mappa
Camminiamo per cinque giorni sui sentieri dell’Helambu trek, l’unico che il nostro guardaroba leggero ci permetta di affrontare, insieme a Uttar, simpatica guida nepalese. Quassù i segni del terremoto del 2015 sono ancora più evidenti che a Kathmandu perché ci siamo avvicinati all’epicentro delle scosse. Sono moltissimi gli edifici crollati o danneggiati e le macerie costituiscono un grosso problema in tutti i piccoli villaggi di montagna, non sempre raggiungibili su strada. La ricostruzione si sta avvalendo di materiali poveri, per lo più lamiere, che rovinano l’incantevole scenario di terrazzamenti colorati contro uno sfondo di vette innevate.
Di ritorno a Kathmandu visitiamo la magnifica e devastata Durbar Square, Patan e il tempio induista di Pashupatinath, sulle rive del Bagmati, dove si svolge la cremazione dei defunti su pire di legno e la dispersione delle ceneri nelle acque del fiume.
Kathmandu ci incanta con il fascino dei suoi vicoletti invasi dai prodotti dell’artigianato locale e dalle maestose architetture sacre, ma poi subdola ci tradisce con scarsissime condizioni igieniche: una porzione di momo avariata, uova non ben cotte o forse un milk tea con latte scaduto ci incastrano entrambi a letto per alcuni giorni con problemi gastrointestinali e plausibile salmonellosi.
Di sabato, il giorno festivo nepalese, sentendoci un pò meglio, lasciamo la città. Forse per la giornata scelta, il traffico non è eccessivo. Circumnavighiamo da sud l’aeroporto e poi, anziché la trafficata Araniko Highway, prendiamo Baktapur road, la parallela campestre, poche centinaia di metri più a nord. L’asfalto è interrotto in alcuni tratti sabbiosi o acciottolati e forse proprio per questo ci sono pochissimi mezzi in transito. Attorno abbiamo delle belle campagne colorate, che diventano terrazzate appena iniziamo a salire. Dopo una decina di chilometri raggiungiamo Baktapur.
Anche qui Durbar Square è un agglomerato di architetture sacre davvero mozzafiato, meno danneggiate dal sisma delle vicine Kathmandu e Patan. Tutto intorno al piccolo centro abitato si estendono cantieri di produzione di mattoni, dove vediamo anche giovanissimi bambini al lavoro; oltre ricominciano le campagne. Dopo 36 km con circa 500 m di dislivello raggiungiamo Dhulikel, a 1500 m di altezza. Ci fermiamo qui perché ancora convalescenti non vogliamo fare sforzi esagerati e visitiamo il paesino ricco di templi e monumenti sacri. Dal versante settentrionale della montagna si gode di una bella visuale sulle vette innevate della catena himalayana, ci dicono, ma la foschia della giornata non ce la lascia apprezzare.
Da Dhulikel imbocchiamo la B.P. Highway, ultimata da poco, ma comunque con tratti dove l’asfalto è malmesso, che ci riporterà nella pianura del Terai. Dopo la città saliamo per poche centinaia di metri di altezza e poi ci lanciamo in una discesa morbida e lunghissima che dura diverse ore.
Il paesaggio attorno è di una bellezza unica, tra i pendii boscosi, i terrazzamenti coltivati e irrigati da piccoli canaletti ingegnosi, la flora rigogliosissima e le casette nepalesi colorate.
A Dumja, che si trova a circa 500 m di altezza, inizia la valle scavata dal fiume Sunkoshi: la strada gli si snoda a fianco con scenari ancora più stupefacenti.
Non si contano su due mani tutti i ponti pedonali sospesi che collegano i villaggi sulla sponda opposta del fiume.
Le donne nepalesi li attraversano portando sulla testa i beni più improbabili: foglie, rami frondosi, legna, mattoni. I bambini li percorrono di corsa in ritardo per il bus che li porterà a scuola.
Una ricaduta della malattia non ancora propriamente sconfitta ci fa procedere lenti tra tappe brevi e giornate di pausa, ma non è un sacrificio fermarsi in questo remoto angolo di Nepal: sebbene la strada sia un’arteria vitale per il paese, nei piccoli villaggi al suo margine la vita, rilassata ed essenziale, si divide tra lavoro dei campi, allevamento e attività al fiume.
Alcune serie di tornanti sono disseminate nei chilometri che seguono Dumja, ma la quota acquisita si perde immediatamente, in un saliscendi poco appagante! Con lo sfondo del fiume e della vallata verdissima, però, ogni spinta sui pedali è un piacere.
A partire dalla piccola cittadina di Khurkot, finalmente, si inizia a salire seriamente. Il percorso è tutto un tornante e le protezioni a bordo della strada sono un pò risicate; il traffico non è intenso, ma gli autobus che percorrono quotidianamente questa rotta scheggiano come pazzi e suonano il clacson alle curve, senza realmente curarsi di chi incrociano.
La salita si snoda per 15 km abbondanti e raggiunge la vetta a 1400 m di altezza, vicino al sito archeologico di Sindhuli Gadhi, popolato da una serie di botteghe. La discesa ci regala, oltre al sollievo delle gambe, una veduta spettacolare sui 16 km di curve che portano a valle.
Quaggiù la cittadina di Kamalamai, coi suoi 40000 abitanti, è la più grossa del distretto di Sindhuli e ospita un festival musicale proprio in questi giorni. La troviamo quindi piena di vita e attività.
La tappa seguente ci riporta nella pianura del Terai, la fascia meridionale del Nepal, calda e infestata di zanzare. Assecondiamo le anse di vari fiumi e poi i dolci rilievi di qualche collinetta sparsa qua e là, fino a Bardibas.
Da qui ci reimmettiamo sulla trafficata East-West Highway, che manterremo fino a Kakarvitta, il punto di confine con lo stato del West Bengala, India.
Dopo aver tollerato le strade dissestate di mezzo Nepal, le salite spezzagambe e le discese ai 50 all’ora, è in una banale strada di pianura che il portapacchi posteriore di Riccardo decide di lasciarci. Una delle quattro aste portanti si spezza di netto. Poco lontano, nell’officina del villaggio, degli uomini all’apparenza espertissimi stanno saldando tonnellate e tonnellate di ferro. Abbiamo la brillante idea di chiedergli di sparare due scintille anche sul nostro portapacchi, che esce dall’esperienza più distrutto di prima: ancora rotto, bruciato e con qualche pezzo mancante. Le grida furiose di Riccardo convincono i nostri eroi ad “aiutarci” ancora e approntano una fasciatura di fil di ferro, fascette e scotch attorno ad due monconi di portapacchi, che reggerà inaspettatamente per i successivi 800 km.
La nostra giornata si conclude a Mirchaiya, piccolo villaggio che, come gli ultimi, non ha nulla da offrire dopo il tramonto, neanche l’illuminazione pubblica.
Al risveglio siamo immersi nella nebbia. Pedaliamo nell’umidità fittissima per un paio di ore, fin quando, attorno alle 10, ricominciamo progressivamente a vedere l’azzurro del cielo e poi i bellissimi colori delle campagne nepalesi.
Maciniamo chilometri rapidamente perché il traffico è scarso e la strada in buone condizioni. A pranzo abbiamo percorso quasi 70 km e ci godiamo un piatto di veg chowmein (noodles con verdure fritti) e poi milk tea al sole.
Verso fine giornata il paesaggio cambia avvicinandoci alla riserva naturale protetta di Koshi Tappu. Attraversiamo il lungo ponte sul fiume Koshi, che crea l’ambiente umido ideale per lo sviluppo di fauna e flora rigogliose sulle sue sponde, specialmente per quanto riguarda le specie di volatili. Da qui in poi, per una decina di chilometri, costeggiamo paludi d’acqua dolce e canneti.
E’ il 31 dicembre, ma, ad Inaruwa nessuno sembra farci caso: arriviamo in un modestissimo albergo, ceniamo, tentiamo una passeggiata ma il buio pesto ci fa tornare rapidamente sui nostri passi e, alle 21:30, le saracinesche esterne del nostro alloggio vengono abbassate. Cogliamo l’invito a ritirarci in camera e ci addormentiamo ben prima della mezzanotte. Al risveglio, però, dei bei sorrisoni seguiti da “Happy New Year” ci fanno capire che anche in Nepal si celebra l’inizio del 2017.
Riprendiamo la Mahendra (o East-West) Highway e pedaliamo di buona lena verso Birtamode, l’ultima delle nostre tappe nepalesi, distante 92 km.
Riconosciamo i segnali dell’avvicinarsi dell’India: ricominciano i tuk-tuk, il traffico aumenta e si fa più sregolato, il sari torna ad essere un abito diffuso.
Nei pressi di Damak, la città più grande sul percorso, si tiene un grosso festival all’aperto in onore dell’anno appena cominciato e migliaia di nepalesi vi si stanno dirigendo in vestiti ed espressioni festosi.
Alla nostra sinistra, per buona parte della giornata, si estendono ettari ed ettari di foresta, punteggiati solo qua e là da gruppi di casette in miniatura colorate, che immaginiamo essere i monumenti funebri locali. Quando la foresta si interrompe, i villaggi sono composti da abitazioni in legno (spesso soprelevate, data la zona originariamente paludosa), covoni di paglia e piccoli appezzamenti coltivati. Capre, mucche, pecore e galline sono una costante di tutti i chilometri nepalesi e ci danno un assaggio di quel rapporto tra l’uomo e gli animali che nella nostra società si è perso ormai alcune generazioni fa.
Birtamode è una città più moderna delle ultime, con svariati hotel e ristoranti. A colazione ci godiamo caffè espresso e cappuccino – piaceri da tempo introvabili – e poi procediamo per gli ultimi 17 km che ci separano dall’India. I ricordi del paese appena attraversato sono meravigliosi: la gente cordiale e rilassata, le verdissime montagne terrazzate e i tornanti con vista fiume per nominarne alcuni.
Al confine un lungo ponte sul fiume Mechi separa i due uffici dell’immagrazione nepalese e indiana, dove le procedure sono semplici e rapide. Lo attraversiamo e ci prepariamo alla seconda avventura indiana.