[Negli anni Venti] il traffico stradale è un teatro in cui quotidianamente la società esprime se stessa: logiche, priorità, contraddizioni, tensioni, gerarchie si manifestano attraverso codici, regolamenti e comportamenti concreti. […] Nonostante il loro numero piuttosto esiguo, le automobili ormai la facevano da padrone sulle vie cittadine e di campagna. […] L’opinione dominante all’epoca rispondeva alla logica del diritto alla velocità, ovvero del diritto della velocità. […] Uno studioso della circolazione stradale, Piero Gambarotta, poteva affermare: «il fine essenziale dell’automobile, e cioè della circolazione moderna, è la velocità», e quindi «bisogna assecondarla in tutti i modi». Anzi, occorre «permettere all’automobile di correre, poiché questo è il suo scopo, questa la ragione per la quale è venuta al mondo». Gambarotta asseriva che l’automobilista deve diventare “davvero” il «re della strada, re rispettato e non detestato, e anche un po’ temuto (il che non guasta)». Tutto ciò in virtù dei diritti della velocità, i quali devono essere «finalmente e ufficialmente precisati e resi noti a tutti». Dal canto suo, l’Automobile Club Italiano (allora Raci) annunciava «il crepuscolo della bicicletta»: il ciclista era solo un «povero paria della strada, che si vale della bicicletta perché i suoi mezzi non gli permettono di valersi dell’automobile », e la bicicletta era ormai destinata a diventare un «ordigno preistorico». […]
Intanto i quotidiani riportavano ogni giorno le cronache di incidenti stradali. L’incompatibilità della circolazione ciclistica e automobilistica si rifletteva infatti nel crescente e allarmante numero di sinistri. La sicurezza stradale diventò un argomento all’ordine del giorno per le autorità ad ogni livello. Secondo le statistiche pubblicate dal comune di Milano, durante il 1929 furono investiti 840 pedoni: dei quali 412 da automobilisti, 36 da motociclisti, 208 dai tram, 129 da carri e furgoni, e 53 da biciclette. Si deve considerare che il numero di veicoli in circolazione a Milano era allora di circa 11.500, tra autovetture private e pubbliche, più una cinquantina di autobus, di fronte a non meno di centomila biciclette. Malgrado queste cifre, il ciclista non poté togliersi la cattiva fama di utente della strada indisciplinato e pericoloso e lo si cominciò a chiamare «zanzara della strada», benché – dopo il pedone – fosse quello più a rischio sulla strada. Le accuse sulla responsabilità degli incidenti si incrociavano tra i diversi interessati: pedoni, automobilisti, ciclisti. Ma questi ultimi, malgrado fossero sempre assolti dalle statistiche venivano il più delle volte considerati come i maggiori responsabili delle sciagure stradali. «Non esitiamo a credere che la gran parte degli incidenti luttuosi della strada sia determinata, direttamente o indirettamente, dalla imprudenza, o addirittura dalla incoscienza di ciclisti…», si leggeva in un saggio di diritto stradale. Secondo “Il Politecnico”, la storica e prestigiosa rivista di scienza e tecnologia applicata, i ciclisti erano i massimi responsabili dell’insicurezza stradale perché «non si curano di nessuno dei loro doveri, e […] quasi sempre sono le cause principali degli incidenti spesso gravi e mortali».
…c’è un problema antico: il pregiudizio atavico ed endemico non sa che farsene delle prove oggettive, in barba al “contra factum non valet argumentum”…non resta che …pedalare con pervicace avvedutezza.