Procedendo nel solco tracciato dal precedente post, intendo qui evidenziare la contraddittorietà di alcuni luoghi comuni che ci sono stati imposti dalla narrazione collettiva. Anche stavolta utilizzerò esempi presi da altre culture e continenti, consapevole del fatto che finirò per generalizzare su temi che non padroneggio fino in fondo. Nondimeno i parallelismi tra situazioni molto dissimili mi appaiono tali da non rischiare di inficiare la logica del ragionamento.
Il primo passaggio nel ragionamento riguarda il burqa, un indumento tornato di moda in Afghanistan in seguito alla presa di potere da parte dei talebani. Il burqa afghano è una sorta di sacco di stoffa con poche aperture che viene fatto indossare alle donne per impedire che mostrando la propria bellezza possano indurre i maschi ‘in tentazione’ (maggiori approfondimenti si possono trovare in rete, a partire dall’ineffabile Wikipedia).
Il punto sul quale voglio concentrare la vostra attenzione riguarda il fatto che dei due soggetti, l’uomo e la donna, è il primo quello considerato ‘potenzialmente a rischio’ (di aggressione, di stupro, o semplicemente di pensieri peccaminosi, che la religione considera impuri). Logica vorrebbe che, individuato da quale lato si generano i comportamenti a rischio (l’uomo), si provvedesse ad intervenire su di esso. Al contrario, in una evidente contraddizione concettuale, si sceglie di intervenire sulla ‘potenziale vittima’, imponendole quella che, in quasi tutto il resto del mondo, viene percepita come una inaccettabile limitazione della libertà individuale.
Schegge di questa mentalità retrograda appartengono nondimeno anche alla nostra cultura. Non è raro, in caso di aggressioni a sfondo sessuale, cercare responsabilità nella vittima dell’aggressione stessa, andando ad indagarne l’abbigliamento ed i comportamenti, con il sotteso pensiero che l’aggressione ‘se la sia andata a cercare’, magari perché vestita in maniera seducente, o addirittura indossando la colpevolissima minigonna.
Questa contraddizione mentale è stata formalizzata negli anni ’70 con l’introduzione del concetto di ‘victim blaming’, o colpevolizzazione della vittima come reazione a forme di dissonanza cognitiva. Traggo, sempre da Wikipedia:
“Alcuni […] hanno proposto che il fenomeno della colpevolizzazione della vittima coinvolga l’ipotesi del mondo giusto, in cui la gente tende a considerare il mondo come un posto giusto e non può accettare una situazione in cui una persona soffra senza un valido motivo. […]
In questo caso, la neutralizzazione del senso di colpa si attua attraverso l’inversione della responsabilità del gesto: l’onere della colpa viene scaricato sulla vittima, accusata di aver messo in atto comportamenti provocatori e quindi, indirettamente, criminogeni: la donna stuprata, ad esempio, è spesso indicata quale vera colpevole della devianza dello stupratore, il quale sarebbe stato indotto all’approccio sessuale dalla condotta ammiccante della vittima, dal suo particolare abbigliamento, o da eventuali atteggiamenti sensuali o provocanti.”
Quindi la colpevolizzazione della donna scagiona il reale colpevole del crimine, ed in qualche misura la società stessa che non ha correttamente agito per impedire il verificarsi del crimine stesso. Colpevolizzare la vittima rasserena gli ignavi, che possono così continuare ad ignorare i reali meccanismi di causa ed effetto per continuare come se nulla fosse.
Cosa c’entrano in tutto questo i ciclisti? Bene, è in vigore, dal 2010, una norma del c.d.s. che disciplina il transito notturno sulle strade extraurbane ed obbliga i ciclisti ad indossare un giubbino catarifrangente, o dispositivo analogo (bretelle). La logica è esattamente la stessa del burqa: per proteggerti da possibili danni alla tua persona obbligo te ad indossare un indumento del quale potresti benissimo fare a meno.
Per gli automobilisti la logica è inconfutabile: ti obbligo per proteggerti. La verità è che si sceglie di intervenire, in maniera inefficace, sulle potenziali vittime, solo per evitare di intervenire, in maniera efficace, sui potenziali criminali. Nel far questo si giustificano, di fatto, le condizioni di contorno che rendono il crimine possibile: la velocità eccessiva, la guida distratta, l’idea stessa che sia ‘normale’ circolare, totalmente a discrezione del conducente, alla guida di veicoli potenzialmente mortali.
Logica vorrebbe che si intervenisse sui potenziali criminali. Se siamo riusciti, in quasi tutte le civiltà umane, a gestire le relazioni tra persone di sesso diverso senza obbligare una parte (quella generalmente vittima di aggressioni) a rinunciare all’espressione della propria libertà individuale, dovremmo anche essere in grado di gestire le relazioni tra diversi utenti della strada senza penalizzare quelli più fragili ed a rischio della propria incolumità.
Ma il punto è che, al pari dei talebani, non vogliamo farlo. Non vogliamo rimettere in discussione la supremazia di una tipologia di veicoli sulle altre. Non vogliamo responsabilizzare i conducenti a comportamenti meno criminali. Non vogliamo caricare delle dovute responsabilità un comparto produttivo che potrebbe essere penalizzato dall’ammissione di essere indirettamente responsabile di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti.
Questo non è un atteggiamento razionale. È pura fede religiosa, al pari di quella dei talebani. E le conseguenze di un tale agire irrazionale sono analogamente inefficaci: l’obbligo dei giubbini catarifrangenti non ha ridotto gli incidenti.
A cosa è servito, allora? Semplicemente a non rimettere in discussione un modello di mobilità mortifero, dal quale dipendono enormi interessi economici. A confermare, nelle teste degli italiani, un luogo comune che pretende le strade ‘ragionevolmente sicure’, ed individua nei comportamenti ‘a rischio’ dei ciclisti la responsabilità degli incidenti che gli occorrono. Una enorme mistificazione collettiva unicamente tesa al mantenimento dello status quo. Con buona pace dei morti e feriti che la mobilità privata lascia sul campo ogni anno, vittime di una guerra mai dichiarata al benessere collettivo ed alla salute pubblica.
Nota dell’autore:
Quando ho messo mano a questo post, solo pochi giorni fa, la questione dell’obbligatorietà del casco per biciclette non era ancora all’ordine del giorno. Per tale motivo nell’articolo non se ne fa menzione. Al pari dell’obbligatorietà del giubbino catarifrangente, l’obbligo del casco, intervenendo sul lato sbagliato del problema, da un lato manca di generare effetti utili, dall’altro produce danni.
Nei paesi dove questa misura è stata introdotta (l’Australia su tutti) anziché una riduzione degli incidenti si è ottenuta una riduzione del numero dei ciclisti sulle strade, un po’ per la paura indotta, un po’ per il timore di multe salate. Purtroppo, per un meccanismo perverso ben noto ai pianificatori della mobilità ciclistica, meno ciclisti circolano sulle strade, più le strade stesse diventano pericolose per quelli che continuano a pedalare. In larga misura ciò è dovuto alla progressiva disabitudine, da parte degli automobilisti, al rispetto di precauzioni minime di sicurezza, come la distanza di sorpasso. Per inciso, la distanza minima di sorpasso è obbligatoria per legge in molti paesi, ma non in Italia, dove da anni i ciclisti ne chiedono l’introduzione. Evidentemente non c’è nessuna lobby in grado di trarre profitto da tale misura… il che ci fornisce un immediato suggerimento sul perché certi provvedimenti normativi finiscano per essere discussi in Parlamento e certi altri no
Io mi domando come si faccia a non capire che più obblighi si impongono, meno la gente sarà invogliata ad usare un mezzo di trasporto diverso. Quanti prenderebbero il bus se fossero obbligati ad indossare calzature antinfortunistiche? (e se un ciccione ti salisse sul piede?) Quanti semplicemente uscirebbero di casa se fossero obbligati ad indossare un giubbotto antiproiettile? (e se un terrorista sparasse in mezzo alla folla?) Quanti prenderebbero l’automobile per fare pochi metri se fossero obbligati ad indossare una tuta ignifuga? (e se prendesse a fuoco l’abitacolo?)
Sono tutti strumenti di prevenzione, ma hanno conseguenze immediate. La conseguenza dello scarso uso della bicicletta è un’incidentalità elevata.
Detto questo io giro quotidianamente in bicicletta e tutti questi ciclisti che “mettono a rischio la propria vita e quella degli altri” non li vedo. In compenso stamattina davanti alla scuola di mia figlia una mamma in Mini Minor è arrivata ad velocità tale che se fosse sbucato un bambino in mezzo alla strada non sarebbe stata in grado di frenare in tempo. Ma di questi comportamenti criminali pare non accorgersi nessuno: sono percepiti come normali.
Stamattina la radiosveglia è partita con una pubblicità di automobili (devo ricambiare canale, uff!), tutta “libertà” di qua, “libertà” di là, la libertà di viaggiare, la libertà di scoprire…
“Ma libertà de che? Che passate il tempo chiusi in scatola ad ossequiare il Codice della Strada!”, ho pensato, di riflesso.
Un’oretta dopo ragionavo sull’obbligatorietà de casco, sull’idea di insicurezza, di costrizione, veicolata da tale provvedimento, e mi è tornata in mente quella pubblicità.
L’industria dell’auto non è stupida (criminale, forse, ma non stupida): se spende soldi per promuovere l’appeal e l’utilizzo dei propri veicoli lo fa “cum grano salis”. Quindi “libertà” ha il massimo appeal, e funziona.
Per contro, il casco obbligatorio veicola un messaggio di “costrizione”, ovvero l’esatto contrario della libertà. E, se tanto mi dà tanto, quello che si otterrà veicolando un simile messaggio sarà disincentivare l’appeal e l’utilizzo della bicicletta. L’esatto opposto di quello che dovremmo realizzare per far respirare le nostre città e le nostre vite.
Non servono analisi, studi o altre discussioni, basta l’osservazione della realtà quotidiana: gli studi li hanno già fatti le case automobilistiche, quello che funziona per un veicolo funziona per tutti. Il casco obbligatorio è una mela avvelenata, e dobbiamo fare tutto il possibile perché si eviti di morderla.
Guarda che il ciclista non ę un soggetto passivo che aspetta di essere investito
Io vedo ogni giorno i ciclisti compiere innumerevoli infrazioni che mettono a rischio la propria vita e quella degli altri, molto più frequentente delle macchine. Il casco è un mezzo di protezione individuale che serve in caso di incidenti e di cadute riducendo molto morti e feriti gravi. I mezzi rifrangenti aentano la visibilità e sono come le luci della macchina. Mi domando come si fa a non capire queste semplici cose.
Le ciclabili ci sono dove abito io, tuttavia da novembre ad aprile sono chiuse in quanto non le puliscono dalla neve né spargono il sale. Quindi se ci vai lo fai a tuo rischio perché oltrepassi un divieto esposto.
Molti anni fa, presi la patente, come molti se non tutti. Da automobilista novello, ricordo che odiavo chiunque potesse intralciarmi. Camion, bici, auto lente. Ero un ragazzino. 18 anni. Venne quindi il momento che salii su un camion per lavoro. Capii che per la mole stessa del mezzo, è ovvia la velocità ridotta. Spazi di arresto enormi eccetera. Ho compreso perché si debba andare piano. Di quanto siano pericolosi i sorpassi a danno dei camion, delle auto che poi ti inchiodano davanti, a volte solo per dispetto. E fidatevi che capitava praticamente ogni giorno.
Da qualche anno uso abitualmente la bici. Ho cominciato a convivere con le auto soprattutto in inverno in quanto le ciclabili non sono fruibili. Ho compreso meglio cosa significhi essere utente debole e la sensazione che siano gli altri a poter decidere se investirti o meno non è rassicurante. Vado prevalentemente in orari notturni quindi fari a manetta. Per farmi vedere punto spesso un faro da 1500 lumen in modalità lampeggiante, così mi vedono.
Ho scoperto con gioia che esistono un sacco di strade secondarie, che passano nei campi, belle. Asfaltate. Tuttavia anche la, trovi sempre auto che le usano pur di risparmiare un paio di km. Quindi ti senti di intralcio ovunque vai. In ciclabile perché dai fastidio alle famiglie, in strada perché le auto da 40k Euro non possono correre come le pubblicità dicevano. Il problema, secondo me, è proprio di fondo. A nessuno importa degli altri. Probabilmente invertendo i ruoli obbligatoriamente una volta a settimana farebbe capire. Quindi, fatti un paio d’ore come passeggero a bordo di un camion per capire meglio. Fatti un giro in bici in città per capire meglio.
Sorrido quando sento parlare di buon senso nelle persone. Non ci credo più. Chi prende l’auto per fare 200mt e andare al bar. Auto parcheggiate in strada perché davanti al bar, con un parcheggio vuoto a 50 metri… Mamme e papà in auto e bimbi davanti neanche legati. Ma potrei continuare all’infinito.
La società non è social. È una gara a chi è più egoista e sono tutti convinti di vincere ma stiamo perdendo tutti.
Scusate la lunghezza del post ?
Ciao, sinceramente la considerazione riguardante il casco mi sembra un po’fuori luogo. Il casco dovrebbe ormai essere sottinteso, anche in una strada deserta. È un indumento ormai poco ingombrante che costa poco e non compromette il look a cui tanti tengono. In generale capisco il discorso di fondo, ma non sono d’accordo sul non usare dispositivi di sicurezza aggiuntivi. Il mondo è imperfetto e la distrazione potrebbe capitare anche in un paese abituato ai ciclisti. Speriamo comunque che prima o poi in Italia venga fatto qualcosa di concreto (in primis piste ciclabili vere).
Sarà una lunga battaglia, grazie anche a chi scrive spazzatura di questo tenore (spero che il link non venga troncato dal software) :
https://motori.corriere.it/motori/attualita/19_febbraio_11/ciclisti-contromano-ma-sempre-cosi-004a8dac-2def-11e9-b2ba-a8cdeed9884a.shtml?refresh_ce-cp
Non voglio nemmeno provare a leggere i commenti della “gente per bene che va in automobile, non come quelli là che… etc etc” . Me li immagino e mi basta così