Lo strano concetto di ironia di Rolling Stone
Da persona che ha scelto di usare la bici ogni giorno, in occasione della tempesta di insulti ricevuta sull’articolo apparso su Rolling Stone mi sarei aspettato una replica di basso profilo, fatta di scuse o minimizzazione.
E invece no: dopo qualche giorno di shitstorm sui social e dure condanne anche da voci autorevoli come il CT della Nazionale di ciclismo Davide Cassani e dalla Fondazione Michele Scarponi, ecco comparire una replica dal lessico ricercato e dai concetti grotteschi, forse dimentica del fatto che le belle parole non bastano a nascondere la debolezza delle argomentazioni.
Non compare neanche un velo di ammissione di torto o di leggerezza, ma la priorità sembra quella di porre l’accento sulla presunta mancanza di ironia dei ciclisti e sulla loro ansia compulsiva di commentare – con un simpatico (simpatico è da intendersi in senso ironico) excursus sulla definizione di ironia.
Siete voi che non capite, mica noi che non sappiamo cosa diciamo o come spiegarlo.
Il resto della risposta del direttore Giberti si sofferma sulla minaccia di morte ricevuta da Banhoff dopo il pezzo, certamente un fatto da condannare, ma che reiterato durante l’articolo sposta l’attenzione dalla questione – i contenuti del pezzo. Non scriverò certo che nel momento in cui ci si prende la responsabilità di scrivere enormità offensive a un pubblico vasto come quello di Rolling Stone una possibilità statistica di incontrare il matto che ti minaccia ci sta sempre, perché il meccanismo sarebbe lo stesso di chi dice “Te la sei andata a cercare” ai ciclisti che muoiono per strada. Siamo persone prima che ciclisti, alla vita ci teniamo, non siamo così meschini e vittimisti, e una minaccia di morte è un fatto grave e ingiustificabile in ogni caso.
Ma tornando all’ironia, una risposta del genere è peggio del silenzio. Uno scivolone ben peggiore del precedente, che dimostra l’ineluttabile dicotomia dell’o ce fate o ce siete. O una spiccata malafede colta dalla quasi totalità dei lettori (non “una parte” di fanatici permalosi, come lascia intendere l’articolo), oppure una totale incompetenza dell’argomento, farcita da una massiccia dose di ottusità nel trattarlo.
I motivi per i quali il pezzo di Ray Banhoff sia offensivo, inaccettabile e diseducativo sono già ampiamente discussi, da lettere aperte come l’editoriale di Pinzuti così come da molti commenti social. Vorrei piuttosto soffermarmi sulla risposta del direttore Giberti, analizzandone dei passi:
L’articolo […] era un’opinione di taglio ironico sui pericoli che corrono i ciclisti […]. Si utilizzava il paradosso per descrivere una doppia realtà che dovrebbe essere a tutti evidente. Primo: c’è gente che perde la vita andando in bicicletta. Il fatto, oltre a essere ovviamente gravissimo di per sé, è addirittura assurdo se ci si ferma un secondo a riflettere: morire sulla strada inseguendo una propria legittima passione è intollerabile.
Cominciamo dal taglio ironico: io non ci vedo nulla di ironico nell’articolo di Banhoff, neanche uscendo dal mio più che soggettivo punto di vista. Ho cercato di mettermi nei panni delle chiacchiere da bar, di chi è pronto a ridere alla più cinica barzelletta alla ricerca di quella eironeia socratica tanto sbandierata.
E invece, solo dati noiosi e acidità: si inizia con dati statistici di una certa pedanteria, e si prosegue snocciolando articoli del CdS mettendo in relazione la presunta indisciplina dei ciclisti con il loro tasso di mortalità. Qui andiamo sul falso statistico: le prime cause di mortalità dei ciclisti sono l’alta velocità degli automobilisti, la distrazione e l’uso di cellulari alla guida, le infrazioni degli automobilisti. Questa non è un’opinione, ma si trova proprio nello stesso documento Istat linkato nell’articolo da Banhoff. Tutto questo avviene per un motivo semplice: un ciclista indisciplinato non può uccidere nessuno, al massimo può essere ucciso da un automobilista che non fa in tempo a evitarlo. E, con tutte le attenuanti del caso, la responsabilità è sempre dell’automobilista che deve adattare la propria velocità in modo da potersi sempre fermare in tempo, anche quando la colpa sia di altri (vedi i primi quattro commi dell’art. 141 del CdS).
Da un grande potere derivano grandi responsabilità, ed è normale che il CdS ne attribuisca di maggiori a chi sposta una tonnellata a 150 km/h rispetto a chi ne sposta una decina a 20.
Non ci trovo nulla di ironico in questo pezzo, e non solo per il rispetto dovuto ai familiari delle vittime della strada, che vedono i loro cari definiti “mosche”, ma anche perché il suo tono è altamente diseducativo e produce disinformazione: tramite la cosiddetta “ironia” (ironia è da leggersi in chiave ironica) produce contenuti di victim blaming che contribuiscono ad alimentare comportamenti scorretti e pericolosi da parte di chi guida, legittimando la velocità e l’ineluttabilità di uno stato di cose inaccettabile.
Sentire una firma fatta di occhiali americani e stazioni tedesche vantarsi di conoscere la strada molto bene e aver fatto molti chilometri alla guida, per poi sostenere che non esistono strade adatte alla bicicletta, stigmatizzare comportamenti legali in Germania come il senso unico eccetto bici, o dimenticarsi che (purtroppo) molte ciclabili sono progettate sul marciapiede, mi preoccupa sul livello di informazione degli automobilisti in Italia. Per lo stesso motivo mi capita di litigare con gente che è sinceramente convinta di avere ragione quando commette infrazioni alla guida.
E poi, dulcis in fundo: “morire sulla strada inseguendo una propria legittima passione” fa capire quanto siamo lontani dalla realtà, e fa forse presagire che l’ottusità prevale sulla malafede. Spiegare che nel 2019 la bici non è soltanto una passione, ma è in primis un mezzo di trasporto, sembra evidentemente un ostacolo insormontabile. Ma in fondo un po’ bisogna aspettarselo: un po’ come un europeo considera giapponesi e cinesi tutti uguali, Rolling Stone mette nello stesso calderone sportivi, viaggiatori, ciclisti urbani, braccianti che hanno nella bici il loro unico modo di andare al lavoro.
Chapeau.
Ottima presa di posizione!
L’immagine di chi si muove in bici è sempre offuscata anche in altri modi più sottili. Per esempio in alcune pubblicità televisive si vedeva il ciclista ansimare in salita, conformemente ai più diffusi luoghi comuni.
Comunque, sintonizzandosi sulla loro ristrettezza cerebrale (o cinismo) si potrebbe ribattere che in Italia ci sono molti più morti in auto, ma nessuno si sogna di mettere in discussione l’utilizzo di questo mezzo, accettato come dogma.
Leggendo l’articolo di Rolling Stones e la successiva replica si rimane sconcertati davanti a quello che non posso che definire “bullismo giornalistico”.
Lavoro nella scuola e spesso devo intervenire contro bulli che prevaricano i più deboli o le minoranze salvo poi giustificarsi in modo maldestro dicendo che stavano solo scherzando.
In questa vicenda si ritrovano esattamente le stesse dinamiche.
Che tristezza…
Direi che questa è la dimostrazione di come questo giornale (mi riferisco al Rolling Stone) sia caduto in basso.