Il Giro visto dal divano e il Giro visto dall’asfalto

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Il Giro va verso Sud, e fa subito inversione. Abbandonata l’Irlanda il gruppo è rientrato in Italia. Certo, a guardare in alto non si direbbe, con tre tappe fatte essenzialmente di pioggia e vento manco fossero su un’isola in mezzo all’oceano. A guardare in basso, invece, si capisce subito che l’asfalto, bucherellato e scivoloso come una saponetta è quello delle strade italianissime.
E i ciclisti, che sono corridori appunto e non kamikaze, a pensarsi tutto il giorno sotto l’acqua e a sentire le ruote che perdono aderenza a ogni sbandata, capita che preoccupino, si spaventino, in definitiva si incazzino.
Nascono qui le proteste dell’insulsa tappa di Bari, un circuitino privo di senso, disegnato su distanza da juniores per accogliere un gruppo stanco dopo il viaggio oltremanica, e rimasto invariato nonostante l’inserimento del giorno di riposo, chè la dimenticanza è una brutta bestia.
Nascono i ventagli di Viggiano, nascono qui le cadute -brutte e dolorose- sulla strada verso Montecassino.

Certo, la sicurezza e l’amor proprio dovrebbero venire sempre prima di tutto. Eppure non si può notare un pizzico di faccia tosta in chi protesta (legittimamente) per la propria incolumità senza rimettere in discussione nulla del proprio comportamento: lamentarsi dei rischi per la salute ma uscire con freddo e pioggia vestiti come in spiaggia a ferragosto, incazzarsi per la scarsa tenuta stradale ma continuare a correre con ruote in carbonio ad alto profilo, su copertoncini lisci e sottilissimi gonfiati a pressioni maggiori che su Venere, entrando alla morte in ogni curva… con il risultato di finire per terra, e portare a terra mezzo gruppo alle proprie spalle.

E’ evidente che i corridori hanno pochi margini di manovra, perchè gli sponsor hanno ben altro interesse a mettere in vetrina i propri prodotti per convincere l’amatore, pollo eternamente da spennare, che senza l’ultimo modello di ruote da migliaia di euri in strada non ci può uscire. Ma tutto questo stride con la rabbia e con le fratture, con le cadute diventate ormai una compagnia costante di qualsiasi corsa bagnata. Tanto se ne parlava al Giro negli ultimi anni, al Tour, al Fiandre poco più di un mese fa. Tanto se ne parla e nulla cambia, ne’ nei regolamenti che si evolvono con tempi pachidermici, ne’ nelle abitudini che potrebbero mutare da un giorno all’altro. D’altronde stiamo parlando di una generazione di corridori che sulla propria pelle ha subito ogni affronto, è stata messa alla gogna dall’opinione pubblica e vessata oltre ogni modo dai suoi dirigenti senza mai trovare l’orgoglio per reagire, ma anzi chiudendosi a riccio e scaricando i malcapitati di turno. Che sulla sicurezza in corsa ci sia maggior compattezza, quindi, non può che essere un buon segno, e un auspicio (utopico, lo so bene) che la tutela dei prori diritti si allarghi a 360°.
Ora aspettiamo che alla doverosa rabbia seguano i necessari atteggiamenti, e che il dito venga puntato anche in altre direzioni, spesso più prossime ai corridori stessi. Sarebbe una botta di vigore per le proteste dei corridori, per il Giro stesso e soprattutto per chi questo Giro ha già dovuto abbandonarlo, lasciando le proprie speranze sull’asfalto umido, e molto più duro del morbido divano da cui commentare è assai più facile. Perchè in fondo, dinnanzi alle cadute in massa, siam tutti ciclisti col culo degli altri.

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