Viaggio in bici sulla Ciclovia dell’Acquedotto (parte 2)

Viaggio in bici sulla Ciclovia dell’Acquedotto (parte 2)

Parte 1

Primo giorno, 27 agosto, Teora – Atella

Si parte da Teora, non è una scelta “simbolica” ma casuale. Qui, infatti, ci accoglie l’Ostello della Gioventù realizzato dal Comune in quella che era una scuola di fortuna donata dal Liechtenstein all’indomani del terremoto del 1980.

Siamo a quasi 700 metri di altezza e imbocchiamo la strada provinciale 150 iniziando ad affrontare piccole discese e brevi salite per circa sei-sette chilometri, prima di imboccare strade secondarie che attraversano contrada Pescara fino ad arrivare a quota 740 metri. Se l’acquedotto qui corre nascosto, nel ventre dell’Irpinia, le tracce dell’acqua compaiono sotto la forma del Lago di Conza, un invaso che dà poi origine a un altro corso d’acqua, il più importante per la Puglia, l’Ofanto.
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Si scende dolcemente, pedalando lungo la statale 7 Dir, passando ai piedi di Cairano, “un paese piantato come un meteorite nell’Irpinia d’oriente”, come dice il paesologo Franco Arminio, “dove c’è una desolazione che è anche beatitudine”. Cairano resta per noi un posto fantastico, perché si continua a pedalare sul nastro d’asfalto non molto trafficato, dove però c’è l’insidia dei giganti della strada che qui hanno il volto dei pomodori del Foggiano in viaggio verso il Casertano e delle auto della Fiat che dallo stabilimento di Melfi si dirigono in tutta Italia. Si marcia in fila indiana, qui non bisogna distrarsi, ma certo non siamo né sulla tangenziale di Milano né sul raccordo anulare di Roma all’ora di punta: si pedala nell’aria frizzante, nonostante il sole caldo. L’obiettivo è raggiungere Calitri, salendo da 400 metri a 700 in cinque chilometri.

“Chiedi e ti sarà detto!”: davanti ad una fontanina dell’acquedotto da cui sgorga acqua freschissima, si para davanti a noi un loquace intellettuale locale che non si risparmia in racconti e aneddoti su Calitri e dintorni. E ce ne ha anche per l’acquedotto. Ricordate la famosa frase di Gaetano Salvemini “L’Acquedotto Pugliese ha dato più da mangiare che da bere”? Non era affatto diretta ai meridionali, come una certa letteratura leghista tende a far credere puntando il dito sull’inefficienza del Sud, spiega il professor Enzo Di Maio, ma era una critica a coloro che dal Nord Italia venivano a speculare sulla sete del Sud. “Salvemini ce l’aveva con i liguri!”, tuona Di Maio spiegando che tutto ciò che serviva per la costruzione dell’acquedotto veniva direttamente da Genova. Neanche un chiodo veniva comprato in loco.
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Il borgo antico, quasi completamente abbandonato dalla popolazione locale dopo la distruzione del terremoto del 1980, è insolitamente animato. È in corso il “Calitri Sponz Fest” di Vinicio Capossela, qualcosa di più di un festival musicale, un’iniziativa che come una scossa elettrica ha smosso la comunità: la signora Maria, che ci fa strada nel cuore del centro storico, dove sta andando a prendere sua figlia che partecipa ad un laboratorio di Slow Food sulla pasta, ci spiega che pur essendo nata e vissuta a Calitri è la prima volta che entra in queste stradine inerpicate sulla rocca, oggi rovine riscoperte, l’anima nascosta del paese.
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Lasciandosi alle spalle l’aria frizzante dello Sponz Fest, si scende di nuovo verso la statale. E, sorpresa, a metà strada ecco un edificio d’epoca quasi nascosto dalla vegetazione selvaggia. È un impianto di sollevamento dell’acquedotto, ormai dismesso. Da qui, potenti pompe spingevano l’acqua su, per dare da bere a Calitri. Oggi questo è uno dei più begli esempi di archeologia industriale dove il tempo sembra essersi fermato fra attrezzi impolverati e antichi impianti. Si apre una porta, la stanza è vuota ma al centro ecco un bidone di latta d’epoca, con la scritta “Vacuum oil company – S.a.i. – Genova”. È la conferma, se ce ne fosse bisogno, che Salvemini aveva visto giusto. La mano dei genovesi regnava sovrana nell’Acquedotto Pugliese.

La strada, poi, è tutta in discesa fino alla statale. Direzione Atella, ancora Tir di auto e pomodori. Ma lo sforzo è ripagato dallo spettacolo che davanti a noi si apre prima del paese: la fiumara di Atella, piccolo affluente dell’Ofanto, sovrastata dal ponte canale dell’Acquedotto Pugliese, una delle opere più importanti, ma anche più armoniche della conduttura. Avventurarsi sul ponte è un privilegio che condividiamo con pastori e greggi, almeno a giudicare dalle evidenti tracce di escrementi di pecore che ci sono sul percorso. Lo percorriamo tutto, lasciamo le biciclette e ci affacciamo dall’altra parte. Sorpresa: il ponte è un piccolo colabrodo, da numerose fessure della conduttura si riversa nella fiumara di Atella un notevole volume d’acqua, perdite che tra l’altro alla lunga rischiano di mettere a rischio la stessa tenuta dell’antica struttura. Ma evidentemente non preoccupano più di tanto gli esperti e i tecnici dell’Acquedotto: quella che a noi sembra una notevole quantità d’acqua, per loro deve essere soltanto una goccia nell’oceano. O no?

Secondo giorno, 28 agosto, Atella – Castel del Monte

A segnare la strada sono le fontanine dell’Acquedotto. Nel viaggio in bici, soprattutto d’estate, l’acqua è un bene prezioso quanto il fiato per scalare le salite. E poi, in questo tratto la condotta corre per la gran parte in gallerie che, una dopo l’altra, consentono al fiume sotterraneo di attraversare l’Appennino e arrivare nelle Murge.
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La seconda tappa, dall’agriturismo La Valle dei Cavalli di Atella, inizia dalla campagna, dolce ma brulla. Si ricomincia a pedalare sulla strade secondarie per immettersi sulla statale 658 Rionero, un passaggio obbligato per dirigersi verso il Vulture, imboccando la provinciale 8 dopo aver costeggiato Rionero. Si scende rapidamente a valle e mentre inizia la salita ecco davanti a noi un’allegra figura di ciclista: è un ragazzo di Varese, cappello di paglia a falde larghe, petto nudo e bici da escursione con pentola e coperchio piazzati sul portapacchi posteriore. È il primo, isolato, cicloturista che incontriamo: è in giro da più di due settimane, viene da Bari, dopo essere stato nei Balcani, ed è diretto a Napoli. Felice e solitario, come solo la bicicletta aiuta ad essere.

La salita verso Ginestra è impegnativa: in quattro chilometri si sale di oltre duecento metri. Questo è un paese con una comunità arbereshe, una colonia albanese che affonda le sue radici nel XV secolo, e dimostra che persino luoghi apparentemente desolati possono essere terra di incontri. E nella desolazione di campi bruciati dal sole si continua a pedalare attraversando il paesaggio quasi lunare della Basilicata, terra scura, arata da poco e percorsa dai trattori, che qui la fanno da padroni. Ettari ed ettari di collina per la gran parte deserta eppure curata (e sfruttata) dall’uomo come testimoniano quelle pale eoliche che, per fortuna non sempre, dominano il selvaggio orizzonte. Far West d’Italia. E a ricordarci che qui siamo nella terra dei “briganti” riemerge l’immagine di quella pistola d’epoca con cinturone a cartucciera che campeggiava sopra la porta dell’agriturismo che ci aveva offerto rifugio per la notte ad Atella.
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Il percorso prosegue, con continui saliscendi, sulla provinciale 10 fino a Venosa, annunciata da un moderno serbatoio pensile dell’Acquedotto. E che cosa poteva esserci accanto se non un’acqua park? D’altronde la elegante cittadina lega la sua storia all’acqua, fin dai tempi dei Romani. E ancora oggi i suoi abitanti vanno alle fontanine pubbliche per approvvigionarsi dell’acqua freschissima che sgorga dai rubinetti, portandola a casa in thermos, di cui pochi sono sprovvisti. Già, perché evidentemente le fontanine pubbliche sono le prime diramazioni del canale principale, quel fiume di vita che scorre nel ventre di Venosa.

Si prosegue per diversi chilometri sulla provinciale 18 ofantina, scendendo per circa quattro chilometri e risalendo per altri tre fino ad arrivare alla provinciale 77 di Santa Lucia, che si imbocca in direzione Spinazzola. Sono venti chilometri di ideale percorso ciclabile, una strada asfaltata e scarsamente frequentata dal traffico automobilistico, che corre parallela alla nuova statale 655, con diversi pini che punteggiano il tracciato: un campo di pomodori annuncia che siamo entrati in Puglia.
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All’ingresso di Spinazzola è una storica fontana a rinfrancare lo spirito per la sosta, proprio davanti ad un impianto dell’Acquedotto Pugliese. Si riparte per scendere nella valle e già si annuncia l’ascensione verso l’Alta Murgia: sono circa nove chilometri di salita impegnativa, per arrivare nel cuore del parco. Siamo sull’altopiano, lo sguardo si allarga verso est e nel verde spunta, maestoso, Castel del Monte. Uno spettacolo che oscura la fatica dei 90 chilometri alle spalle.

[continua…]

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