Carnevale sulle Ande pedalando in Bolivia

Carnevale sulle Ande pedalando in Bolivia

Carnevale sulle Ande pedalando in Bolivia

Carnevale sulle Ande pedalando in Bolivia

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Ciao! L’altra volta ero Marcos e scrivevo dal confine con l’Argentina, e ora sono Gringo e scrivo dal confine col Perù, solo che ora scrivo dalla spiaggia del lago Titicaca, con davanti a me la “isla del sol” in un posto chiamato Copacabana, mentre l’altra volta in un posto chiamato Villazon!

Il primo impatto con la Bolivia non è dei migliori. Con in testa gli avvertimenti degli argentini, che in Bolivia tutti rubano, Villazon città frontiera, si esprime per quel che è, per un mercato a cielo aperto in grado di vendere ogni genere di cosa, in cui boliviani e argentini fanno affari l’uno mediante l’altro, curando poco l’estetica della città. Decido di non fermarmi qui a riposare, ma mi do come obiettivo Tupiza, 90 km più in là. Causa ora indietro e altitudine, son le 6 e mezza, e dalla finestra il sole è già alto e caldo, e Villazon è già frenetica. Sfrutto tutto ‘sto luminoso casino per svegliarmi prima e andarmene prima. Però lo faccio con poca grinta, le gambe girano meno e la testa, che si pregustava un dì di riposo, non ha molta voglia di andare in bici.

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Lo stesso paesaggio secco e arido, ma molto più tortuoso, non aiutava. Dopo 30 km – e dopo aver deciso che ne avrei fatti 20 fino al prossimo paese e poi basta – mentre spingevo la bici dopo una discesa, mi si ferma un pick-up e così dal nulla, senza che gli avessi chiesto niente, m’invita a salire, fino a Tupiza! Io per educazione, senza mancare di rispetto, carico la bici, e dal cassone mi godo un paesaggio, km dopo km sempre più bello e particolare, prima da solo, poi con Miguel, e poi con una Signora. In 3 con bicicletta e borse eravam su quel cassone, non più tanto così comodo! Da Miguel pero, adulto di Tupiza con la passione per i campi e la terra ricevo numerose informazioni e quando verso le 3 cammino per le vie di Tupiza completamente asciutto e rilassato mi trovo ad un bivio. Partire l’indomani con il mio nuovo copertone tassellato, acquistato per l’occasione a Villazon per 220 km verso Uyuny, attraverso una strada tutta sterrata che oscilla tra 3.800 e 4.200 metri in cui c’è solo Atocha nel mezzo, o farsi 7 ore di bus con la bicicletta in stiva? Quando verso sera, stavo andando a fare la spesa intenzionato a partire, mi sono fermato a parlare con il biciclettaio vicino all’ostello e dopo avermi mostrato uno svariato elenco di foto con cicloturisti, vengo a sapere che gli unici a farlo sono quelli provenienti da Uyuny, cioè a vento favorevole. Mi attira da matti l’idea di affrontare un percorso del genere, ma non controvento, da solo, nel periodo delle piogge e a quelle altitudini.

Quindi il giorno dopo, in sella alla bicicletta, parto per la terminal, dove mi aspettano 8 ore di traballìo, su un bus tutto scassato ma con le ruote ruote tassellate, prima su e giù fino a 4.200 metri lungo strade strette, panoramiche e pericolose, poi dopo Atocha, Pampa lunga sterrata e piatta per almeno un centinaio di km. Fino finalmente a Uyuny. Che è fondamentalmente una brutta città, fatta male, ma tanto i turisti non son qui per lei, ma per la salina, la più grande al mondo. E infatti è davvero grande, e se inizialmente un po’ scettico, quando mi ci ritrovo in mezzo, a quel mare bianco cambio idea e rimango ancora una volta stupito da quel che la natura è stata capace di fare.

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Le 2 sere a Uyuny le passo sotto la pagoda della piazza principale in compagnia di vari ragazzi sudamericani. Ho imparato una cosa che avevo sottovalutato. Che c’è gente che vendendo la sua arte – chi suonando, chi dipingendo, chi facendo bracciali e collane – è in grado di vivere, viaggiare ed essere felici, con un semplice zaino in spalla e uno strumento.

Riparto da Uyuni, in direzione Potosi, galvanizzato, ma subito inchiodato da 20 km di salita, che mi portano inaspettatamente a quota 4.200. Faccio una foto al Salar in lontananza e poi una discesa lenta bella e col vento a favore fino a Tica Tica, per circa altri 60 km. Sono le 5 e con tutto il rispetto di Tica Tica, non ha senso fermarsi qui. E quindi inizio la salita, che a sentir i locali, termina solo dopo quelle montagne qui davanti. Dopo 10 km con la strada che continua a salire, dedico attenzione a trovare un “camping” a lato strada che mi ospiti per la nottata. Tante patate e tonno mi riempiranno la pancia. Il giorno dopo voglio dormire a Potosi, a 4.000 m, cosi mi levo di buon’ora e salgo e salgo, poi scendo, e poi salgo ancora, il doppio di quanto son salito prima fra montagne ricoperte di verde, ma non troppo, fino a raggiungere Porco, che rispecchia esattamente il mio stato d’animo.

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Sono sfinito e mancano ancora 30 km e la strada nel lasciare il pueblo sale ancora in maniera dolorosa al solo pensiero di doverla affrontare. Sono 5 e sono tanto stanco di salire, però sul punto di mollare, mi vien detto che Porco è situata a 4.300 m e che quindi dopo quella salita è tutta discesa. A quel punto uno ci prova. E non fa niente per gli ultimi 8 km a passo d’uomo in salita verso Potosi quando già è buio, l’importante è esserci arrivato e aver trovato un alloggio medio-decente! Il giorno dopo cade il festeggiamento del “conpadre” – cioè l’uomo non solo non lavora, ma viene onorato dal corrispettivo sesso – fra una settimana ci sarà il festeggiamento della “comadre” e poi partirà Carnevale con i suoi riti e tradizioni. Potosi, ricca più in passato per i suoi giacimenti di oro e argento, mi dà la fortuna di salire sul Cerro Rico, e visitare le miniere senza minatori, di capire come funziona il lavoro di un minatore e di poter vedere, in fondo in fondo la statua, che soprattutto in questa festa il minatore venera. Per curiosità vi dico che il minatore, per sperare di non trovare una vena sporca con altri metalli, beve solo alcool puro e le foglie di coca sono d’obbligo.

Per motivi di tempo scelgo la strada che mi porterà ad Oruro, rinunciando alla bella Sucre. Dopo bei 20 km di discesa, incontro la prima salita e un’altra bellissima discesa, che son sicuro mi costerà caro. Infatti dopo Tarampaya il cartello “Cammino Inca” mi avvisa che non sarà semplice, e infatti è lunga e dura. Sembra non finire mai, e anche quanto penso di aver raggiunto il punto più alto, è solo un’illusione, perché la strada spiana solo per un breve tratto, e poi torna a salire, continuando sinistra con valli strapiombanti, mentre alla destra lungo la montagna, qualche villaggio più o meno disabitato sparso qua e là, che può offrire solo riparo dalla pioggia. Fra una salita è l’altra in questa giornata ho compiuto i miei primi 1.000 km di viaggio. L’obiettivo Ventilla salta quando dopo l’ennesima salita, non si presenta la “pura bacada” che un camionista mi aveva assicurato. Sono davvero esausto, il sole è sparito dietro le montagne e trovare un posticino per me non è cosi semplice. Mi toccherà accontentarmi.

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La mattina seguente, dopo 12 km di ulteriore salita trovo Ventilla quasi ormai senza speranze, faccio una ricca colazione e con la benedizione evangelista delle signore che mi riempiono di caramelle, riparto verso Challapata alla ricerca di questa ambitissima pampa. E superato l’ultimo ostacolo e un’altra ora di salita vedo la fine, penso di aver raggiunto i 4.300 metri perché davanti a me ora c’è solo pianura in leggera discesa: l’attraverso prima in una valleverde piena zeppa di lamapaca e poi seguendo un fiume in un canyon. Peccato solo per esser controvento. Arrivo a Challapata che son le 7 di sera e il sole sta tramontando. Il paese è triste, utile solo ai camionisti di passaggio, e il posto dove dormirò, per 4 euro è forse ancor peggio, ma se penso al freddo patito la notte prima, lo ritengo un lusso.

Con attorno a me solo la pianura, il viaggio ne perde un po’ in estetica, ma finalmente riesco a far girare le gambe un po’ più rapidamente, e per lunghi tratti riesco a tenere i 20 km all’ora. Poi mi fermo perché penso che sto andando fin troppo veloce, e quando riparto da Pazna si alza prima un vento laterale e poi arriva la pioggia, e quando non c’è più sole, anche il freddo. Arrivo a Poopo piu tardi del previsto, solo per fortuna trovo ancora un chiosco aperto che mi serve qualcosa di caldo.

Quando riparto, il vento come temevo, ha cambiato direzione, ora soffia da destra ed è più forte di prima. Mi sposta in mezzo alla strada, che è piatta e con il lago prosciugato è poco interessante, e dopo un totale di giornata di 80 km, stanco e stufo di sprecare energie per lottare contro un qualcosa piu forte di me. Mi fermo e mostro il pollice. Si ferma un gran bel van, con turisti argentini in visita per il Carnevale di Oruro. La bici ci sta alla grande in piedi a fianco a me. Dopo le domande di rito, mi addormento e mi sveglio 40 km dopo ché devo far scender la bici. Appena sveglio, sbattimento incredibile, e non riesco ed esser molto caloroso nei saluti. Fuori c’è il caos. È Domingo e c’è l’entrata del Carnevale di Oruro! Quello cioè che ci sarà fra una settimana da venerdì a domenica ininterrottamente! Io vi assicuro non lo sapevo, son stato 2 giorni in mezzo alle montagne, sapevo di ‘sto Carnevale ad Oruro cui tutti parlavano, ma credevo in una domenica come le altre con le città deserte, e invece il finimondo!

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Son tutti in giro per strada. Le vie del centro sono bloccate dalla carovana danzante, con i suoi vari musicisti e ballerine, i bambini si spruzzano la spuma, e inizio a vedere le prime persone che reggendosi orinano in pieno centro senza ritegno. Dopo numerosi giri a vuoto alla ricerca di un ostello, entro nella carovana e mi accodo pian piano, tra le persone ai lati e sugli spalti applausi, foto e pollice in alto. Esco dall’attenzione generale, e vado nel primo alloggio che mi ispira fiducia, e son fortunato, perché costa poco, è a lato del centro e perché incontro Martin, un ‘artesano’ argentino che conosce perfettamente la città di Oruro, col quale nel casino generale, esco e mi presenta un altro Martin, di Santa Cruz, una buonissima onda, con cui passo il resto della serata a camminare su e giù per la città, e a parlare di ogni genere di argomento, dai più bassi ai più alti.

La bici con una catena nuova e le ruote ora belle centrate, gira meglio e in maniera più silenziosa attraverso la pampa boliviana che pian piano che si avvicina a La Paz è sempre un po’ più popolata ma anche più verde e piovosa. Dopo Oruro dormirò a Lahuachaca, dove la sera, con pancia piena e gambe dure, torno a rincorrere un pallone, mentre, la sera dopo a Calamarca, dove un alloggio parrocchiale mi darà dove dormire in un paesino che in realtà non mi darà nient’altro.

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Gli ultimi 55 km a La Paz sono volati, tra lunghe salite e lunghe discese, con sempre più case mezze sfatte e terreni coltivati, in maggioranza a patate. 20 km prima della città, lungo una salita, vedo in colonna i primi camion e i primi bus. Fermandomi per un un’ora e mezza con 2 camionisti conosciuti sulla strada, tra un rituale per Pachamama e l’altro, scopro che son lì bloccati – da e per La Paz – da domenica ad oggi, cioè da 4 notti, e così in tutto il paese, in lotta contro le decisioni politiche di Evo Morales, presidente boliviano, che ora col referendum del 21 febbraio, divide l’intero paese fra Evo-sì e Evo-no, cioè fra quelli che son d’accordo per cambiare la Costituzione e fargli fare un terzo mandato, e quelli che dicono “Evo è stato bello, ma ora basta grazie”.

Da quassù insieme ai camion, si vede tutto El Alto, la megaperiferia di La Paz. Pero la leggera discesa è brutta e la vivo proprio male, fra caldo, smog, minivan che continuano a suonare il clacson inutilmente, birra in corpo, qualche sigaretta di troppo e il ricco cibo offertomi dai camionisti in blocco procedo lento e a fatica sotto il sole delle 2. Poi all’improvviso fra le case tutte ammassate si apre una vista della vallata, le case sostituiscono gli alberi e in fondo in fondo si vede una striscia zeppa di grattacieli che da quassù sembrano tanto innocenti.

Sbagliando non seguo la strada che gira in maniera panoramica intorno alla valle, ma mi butto in picchiata verso la parte più bassa della città, frenando tanto e facendo zig-zag fra questi maledetti minivan, mercati, persone, cani e tante altre cose, fra un quartiere e l’altro. All’Avenida Arce in pieno centro “la casa del ciclista” di Cristian Conitzer sarà, senza il proprietario, la casa mia, di uno svedese che aspettava il termine dei blocchi per partire verso casa (Ushuaia- Cuzco), di un belga che è partito da Bogotà per raggiungere suo fratello vicino a San Paolo in Brasile, di un tedesco di 22 anni che dopo 20 giorni di preparativi, comprava e organizzava la sua prima bici, per il suo primo viaggio verso il Brasile e chissà, e per qualche ora, di 2 australiani non troppo giovani, che tornavano giustamente distrutti da un tour di 4 giorni su una montagna limitrofa a 6.800 metri (Lima-Ushuaia). Una bella famigliola accomunata della passione per la bici e i viaggi.

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La Paz mi incanta. Dai suoi grattacieli nella parte più ricca, ai barrii più poveri e tradizionali lungo i lati della valle. Sono poi capitato nei giorni di carnevale, in giorni di festa, in cui tutti i musei erano chiusi ed i bambini per strada tutti mascherati spruzzavano spuma e acqua a tutti, indistintamente. Dopo un gavettone in faccia, così dal nulla, ho iniziato anch’io a giocare con la spuma!
È domenica, ed è un ottimo dì per uscire da una città tanto grande, e 2 giorni e mezzo dopo il mio arrivo, riparto verso la lunga e piovosa salita panoramica verso El Alto dove solo un camion dopo 12 km, che sale poco più forte di me, mi dà la possibilità di attaccarmi e farmi i restanti 3 km senza fare una pedalata.

Sono in cima e in piano, e a El Alto c’è ancora festa, il solito Carnevale. Sono zuppo, ho freddo e fame, e il solito pollo, patate, riso e verdura, in una broasteria, risolve con calma ogni mio problema. Uscire da El alto è cosa lunga ed impegnativa e il paesaggio è molto simile all’entrata. Finalmente dopo 50 km in direzione Copacabana, trovo la svolta per Penas, abbandono così la trafficata e sconnessa strada principale, per prendere una bella strada di campagna che prosegue in mezzo ai campi. Il paesaggio cambia, tutto è più verde e la pastorizia la fa da padrone, e dopo 12 km di questa stupenda strada secondaria raggiungo Penas. Ringrazio Robin, il cicloturista belga, per il consiglio. Alla parrocchia mi accoglie Simona che con Riccardo si occupa di tenere in piedi e in vita questa comunità montana, che come le altre, si sta spopolando in favore della coltivazione della coca, che nell’Est della Bolivia è molto più redditizio. È stato Padre Antonio a iniziare tutto 6 anni fa ed ora grazie a loro ho un letto, una doccia, un’ottima cena e una ricca colazione l’indomani mattina, il tutto contornato da una vallata ricca di vita. Sono chiaramente in debito, e un’offerta è d’obbligo: e se anche voi un giorno passerete di lì, una deviazione verso Penas è d’obbligo, però per favore non fatemi fare brutta figura!

Per uscire da Penas la strada non è piu asfaltata, ed è forse ancor più bella. Intravedo il lago Titicaca, ed ecco la discesa verso Haurina dove incontrerò la mia prima trota, che con patate, riso e verdure sostituisce il pollo. Costeggio il lago fino allo stretto di Tiquina, una zattera per camion mi porterà dall’altra parte, dove dopo altri 40 km di salite e discese, arrivo finalmente esausto a Copacabana, dove, in questa bella, piccola e rilassante città, per 2 giorni troverò ospitalità, e tanti viaggiatori già incontrati lungo il cammino.

Da qui in poi è ancor tutto da scoprire.

Ciao, alla prossima.

Marco

Commenti

  1. Avatar Angela ha detto:

    Ammiro il coraggio nell’affrontare un simile viaggio. Beato te che vedi tutti quei posti.
    Angela C.

  2. Avatar Corny ha detto:

    Sempre più lunghi…….e interessanti i tuoi articoli!

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