Mobilità

Salvaiciclisti 10 anni dopo: i numeri di un fallimento

Dieci anni fa, oggi, una coalizione di blogger del mondo della bicicletta si univa per creare la campagna Salvaiciclisti: un appello rivolto alle testate giornalistiche italiane a riprendere in Italia la campagna “Cities fit for cyclists” lanciata dal Times di Londra.

logo Salvaiciclisti

Il 2 febbraio 2012, infatti, il Times pubblicò un decalogo indirizzato al governo per chiedere misura di tutela nei confronti delle utenze deboli della strada. Tra le altre cose spiccava la richiesta di introdurre il limite di 30 km/h nelle aree urbane, la nomina di un commissario per la ciclabilità in ogni città, la mappatura degli incroci più pericolosi.

Quello che balzava immediatamente agli occhi erano le cifre in campo: mentre nel Regno Unito uno dei principali quotidiani chiedeva interventi urgenti per porre fine alla strage di ciclisti (1.275 ciclisti uccisi sulle strade in 10 anni), in Italia tutto taceva, nonostante il numero di ciclisti uccisi nello stesso lasso di tempo fosse più del doppio (2.556 in 10 anni) a pressoché parità di popolazione.

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A rompere il silenzio fu una cordata di 38 blogger che ebbi il piacere e la disavventura di attivare sul tema. L’8 febbraio 2012 i lettori di quei blog furono esortati a scrivere alle redazioni per chiedere di sostenere la campagna: fu una critical mass digitale che intasò le mail delle principali testate giornalistiche e che ebbe immediato responso mediatico.

Di lì a poco fu creata una proposta di legge (mai discussa in aula, però), una manifestazione a Roma che coinvolse oltre 50.000 persone e una serie infinita di pronunciamenti e promesse da parte dei sindaci di ogni colore politico.

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Da quel momento storico che oggi compie dieci anni sono nate le associazioni Salvaiciclisti Bologna e Salvaiciclisti Roma, altre associazioni e altri gruppi informali in giro per l’Italia.

Di quei giorni a me rimane il ricordo delle giornate e nottate trascorse a cercare con entusiasmo e adrenalina uno spiraglio al muro di gomma dell’indifferenza collettiva nei confronti del problema dell’insicurezza stradale e della tutela delle vite dei soggetti più fragili. Mi rimane il ricordo della speranza che nutrivo in quei giorni in cui sembrava che le cose stessero cambiando.

Oggi, con dieci anni in più e molti capelli in meno in testa, mi sento obbligato a fare un piccolo bilancio di quella stagione e di come siano andate le cose.

Al di là delle mie opinioni personali, credo che a parlare debbano essere i numeri: nel decennio 2001-2010 hanno perso la vita sulle strade italiane 2.556 ciclisti. Nel decennio 2011-2020 i ciclisti morti sono stati 2.519. Tecnicamente si tratta di una riduzione dell’1,4%, ma il 2020 non è stato un anno normale a causa dei mesi trascorsi a casa. Se il 2020 fosse stato un anno normale la conta dei ciclisti morti nel decennio si sarebbe aggirata attorno alle 2.603 unità, quindi in aumento dell’1,8%.

Giusto per la cronaca, nell’ultimo decennio nel Regno Unito la conta dei morti in bicicletta si è fermata a quota 1.090, quindi con una riduzione del 14% rispetto al decennio precedente.

E questa è la differenza tra un paese in cui la gente “si indigna, si impegna e poi getta la spugna con gran dignità” e un paese in cui alle parole seguono i fatti e le politiche conseguenti.

Questi sono i fatti, e poi ci sono le opinioni.

Nelle opinioni la colpa è sempre di qualcun altro e l’autoassoluzione è la strada più facile.

Ma io sono perseguitato da una domanda: perché non abbiamo fatto di più? Cosa ci ha impedito di fare di meglio?

Commenti

  1. Avatar Valerio ha detto:

    C’è un problema di mentalità e c’è un problema di infrastrutture. Sono cresciuto con il culto della macchina, sempre più veloce e sempre più grossa, questa idolatria che non e solo italiana, prenderà una generazione a sparire, forse un può meno se si prende coscienza che una macchina di due tonnellate che fila a 200 orari non e sostenibile (elettrica o no). Poi dividere il traffico e l’unica soluzione, ma anche lì occorre tempo, in particolare nei centri storici italiani, non e facile. Di più l’educazione dei ciclisti e anche un problema, non passa un giorno senza vedere ciclisti che non si fermano al rosso oppure che viaggiano di notte senza idonea illuminazione.

  2. Avatar Guido Leoni ha detto:

    Gli Italiani non sono un popolo, sono 10.000 paesini con usi e costumi diversi. A Montecatini si mangia, si parla e si gioca a carte in modo diverso. Cosa ci unisce? Il disprezzo delle regole penso che sia uno dei nostri più forti collanti. Se poi le regole si fanno solo per favorire le multinazionali, la sicurezza dei ciclisti interessa poco, soprattutto se quei pochi ciclisti sono prima di tutto degli automobilisti. Comunque non me la spiego tutta… perché agli italiani interessi più andare forte e senza alcun rispetto per la vita, mentre in altri paesi c’è attenzione. Credo che ci sia un altro collante, vale a dire l’individualismo (figlio legittimo della religione cattolica). Mah…

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