Arrendersi non è un’opzione

Arrendersi non è un’opzione

Oggi Repubblica.it se ne è uscita con una notizia che come sensazionalismo rasenta la scoperta dell’acqua calda: la bicicletta è il mezzo di trasporto più pericoloso.

La redazione Motori (non la redazione cronaca!) ha commissionato una ricerca all’Osservatotorio il Centauro-ASAPS da cui emerge che le vittime degli assassini al volante (impropriamente chiamati “pirati della strada”) sono soprattutto persone che si muovono in bicicletta. Il giornalista che riporta la notizia si guarda bene dal commentarla,[1] ma d’altronde, lavorando per una sezione che vive delle inserzioni da parte del comparto auto, sarebbe da ingenui aspettarsi che possa mettere l’accento su quanto le automobili siano pericolose per tutti coloro che non le usano: a ciascuno il suo mestiere.
Il messaggio nascosto, però, è chiaro: stai pensando di liberarti dell’auto perché costa troppo? Così poco vale la tua vita?

Ogni attore economico ha d’altronde tutto il diritto e l’interesse di (muovendosi nei limiti della legalità) influenzare l’opinione pubblica affinché il proprio prodotto venga comprato il più possibile, solo che le case automobilistiche lo fanno particolarmente bene, i portatori di interessi del mondo bici (con la consistente eccezione della FIAB a livello nazionale e di molte altre piccole o microscopiche realtà locali), non ci provano neppure:

I costruttori di bici pensano unicamente a vendere i propri prodotti nella speranza che i propri clienti non prendano troppo sul serio i dati sulla mortalità in bicicletta e continuino a comprare prodotti nuovi invece di rivolgersi alle ciclofficine.

La Federciclismo è luogo di campagna elettorale in cui da mesi si consumano lotte di potere interne per spartirsi poltrone e lauti stipendi futuri che non portano nessun vantaggio a chi si sposta in bicicletta o a chi usa la bicicletta per sport. Tanto se i bambini di oggi non sanno andare in bici perché non possono farlo, domani i campioni in maglia azzurra li avremo naturalizzando gli immigrati clandestini sopravvissuti alle nostre strade statali e che ogni giorno macinano km e km in bici per andare e tornare dai campi di pomodori dove lavorano per 10 euro al giorno (e vinceranno sicuramente perché si sa che i negri sono più forti).

RCS Sport, organizzatore delle più importanti corse su strada, si limita a spremere fino all’ultima goccia gli sponsor (anzi, mi piacerebbe sapere quanto hanno preso gli amici di via Solferino dai costruttori per far mettere il bollino di #salvaiciclisti sui caschi dei corridori in gara durante l’ultima edizione del Giro), mentre finanche la Gazzetta dello Sport relega il ciclismo tra le ultime pagine del giornale.

Quindi, mentre i portatori di interessi del mondo del ciclismo italiano (un tempo il più bello del mondo) cercano di mangiarsi le ultime briciole rimaste sulla tovaglia, in Gran Bretagna il Times ha finanziato un’inchiesta del parlamento per studiare le misure necessarie per mettere in sella gli inglesi, mentre il Ministero dei trasporti britannico ha allocato 72 milioni di euro per promuovere la ciclabilità.

Mettere a confronto la situazione italiana con la situazione inglese proprio oggi fa particolarmente male: oggi è il 5 febbraio. Esattamente un anno fa in questo momento era in corso una tempesta di email tra i blogger che tre giorni dopo diedero vita a #salvaiciclisti. Eravamo pieni di speranze e qualche piccolo cambiamento forse l’abbiamo provocato. Certo, avere la sensazione di ritrovarsi a combattere contro i mulini a vento non è mai piacevole.

Però arrendersi non è un’opzione.

don-quichotte

Questo blog è ovviamente a disposizione di tutti coloro che sono stati chiamati in causa in questo post per un’eventuale replica.

[1] Per correttezza segnalo anche il commento di Angelo Melone che sulla stessa testata mette doverosamente i puntini sulle i e fa notare i deficit urbanistici dei contesti in cui i ciclisti si muovono

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