Mobilità

La mobilità urbana dopo il Coronavirus

In questi giorni di isolamento a casa, io, come probabilmente tutti gli altri, non faccio altro che pensare a come sarà quando questo periodo finirà, a quando potremo ritornare a uscire, magari non proprio ad affollare i bar per le apericene come nei bei tempi andati, ma almeno poter andare al parco, andare a fare un giro, rivedere i miei genitori e gli amici. E questo pensiero mi aiuta a tirare avanti, giorno per giorno, in questo momento di privazione della libertà.

C’era una volta la movida

Ma oltre a pensare a me stesso mi chiedo come sarà il sistema di mobilità urbana una volta che si potrà tornare alle normali attività lavorative, una volta in cui riapriranno gli uffici e il telelavoro sarà solo un ricordo. E questo pensiero mi spaventa.

Mi spaventa perché ho la certezza che nulla sarà più come prima, perché troppe cose sono cambiate nel frattempo. Nel frattempo noi Italiani avremo modificato le nostre abitudini tra le quali, in ordine sparso, il nostro modo di salutarci (darsi la mano o sbaciucchiarsi non sarà più socialmente accettabile), il nostro modo di interagire e il nostro modo di vedere l’altro. Sono convinto che al rientro sarà difficile tornare ad avere contatti umani come in precedenza e una volta imparato a mantenere le distanze, difficilmente torneremo indietro.

La domanda per chi si occupa di mobilità è quindi: “quale impatto avrà questa mancata propensione alla vicinanza umana per il trasporto e la mobilità?”.

L’impatto più prevedibile è che ragionevolmente gli Italiani preferiranno mantenere le distanze anche durante i propri spostamenti e che, al rientro dalla prigionia, di fronte alla scelta tra utilizzare un mezzo di trasporto individuale e un mezzo di trasporto collettivo la tendenza generale sarà preferire sistemi di trasporto individuale.

Se usciamo dall’astrazione e iniziamo a guardare i numeri, il problema reale inizia a emergere (per comodità userò la città di Milano come esempio).

La metropolitana al tempo del Coronavirus

Prima dello scoppio dell’epidemia il modal split urbano della città di Milano era così suddiviso (fonte PUMS):

  • Auto: 30,2%
  • Moto: 7,3%
  • Trasporto pubblico: 56,7%
  • Bicicletta: 5,7%

Questo significa che all’inizio dell’epidemia, dei 1,35 milioni di abitanti, il 56,7% (ovvero 765.000 persone) si muoveva ogni giorno utilizzando l’efficientissimo trasporto pubblico milanese. La domanda che si deve porre il decisore politico in questo momento è quindi questa: “quando potremo tornare a muoverci liberamente, come si sposteranno queste 765.000 persone?”. Per facilità di ragionamento, partiremo dall’assunto nessuno perderà il lavoro, che la popolazione resterà stabile e che il tele-lavoro tornerà essere una condizione da scongiurare.

Probabilmente qualcuno continuerà ad affollare la metropolitana, i bus e i tram, esattamente come sta avvenendo anche ora in piena epidemia, mentre qualcuno non ne vorrà sapere di condividere il proprio spazio vitale con altri esseri umani.

Se a quest’ultima categoria dovesse appartenere anche solo il 10% del totale degli utilizzatori del trasporto pubblico (facendo finta per un attimo che restino immutate le esigenze di mobilità dei cittadini milanesi), di colpo avremmo 76.500 persone che abbandoneranno il trasporto pubblico per passare a forme di mobilità privata. Se, invece del 10% il numero di indisponibili a usare il TPL dovesse essere del 20%, la città di Milano avrebbe oltre 150.000 persone che baratterebbero il TPL in cambio di forme di mobilità individuale. Se questa percentuale dovesse essere del 30%, i “disertori” del TPL sarebbero circa 230.000 persone e così via.

Ora, diversi studi che stanno circolando in questo momento ci dicono una serie di cose:

  • che il virus è più impattante in quei luoghi in cui la qualità dell’aria è peggiore perché le vie respiratorie della popolazione sono più deboli;
  • che il virus si propaga più in fretta in territori in cui c’è una maggiore concentrazione di polveri sottili;
  • che una popolazione fisicamente attiva è più forte e resistente alle malattie (ma questo lo sapevamo già).

Alla luce di questi elementi, se ipotizziamo che le 230, 150 o 75 mila persone che abbandoneranno i servizi di ATM dovessero scegliere di usare l’automobile (rigorosamente da soli perché se si condivide lo spazio nell’abitacolo, allora tanto vale usare il TPL) ci sarebbero 100.000 automobili (facciamo cifra tonda) in più in circolazione per Milano che creerebbero traffico, rallentamenti, inquinamento e peggiorerebbero ulteriormente la qualità dell’aria compromettendo la salute di tutti quanti.

Inutile dire che ci sarebbero anche delle implicazioni di natura economico/sociale: chi ha i soldi userà l’auto, chi non ce li ha sarà costretto a condividere il proprio spazio vitale con altri dentro un mezzo pubblico.

Così, a caldo, verrebbe da dire che tutti gli scontenti del trasporto pubblico potrebbero ripiegare sulla bicicletta, ma sappiamo bene che se fosse così facile e sicuro usare la bicicletta a Milano, la percentuale di chi la usava prima dello scoppio dell’epidemia sarebbe stata del 50% (come a Copenhagen) e non del 5,7%.

Questo significa che se al termine dell’epidemia non vogliamo ritrovarci con centinaia di migliaia di auto che invadono la città occorre creare degli spazi sicuri per chi, in fuga dal trasporto pubblico, è disponibile a usare la bicicletta.

Purtroppo le tempistiche non ci permettono interventi tradizionali: non c’è tempo per creare piste ciclabili, non c’è tempo per realizzare piste ciclabili, abbiamo il tempo solo per reagire in modo emergenziale chiedendo a tutti quanti un piccolo sacrificio in nome del bene comune.

Milano dispone di una rete stradale di circa 2000 km che permette l’accessibilità a qualunque angolo della città: cosa succederebbe se si decidesse di destinare il 10% di quelle strade a coloro che, rinunciando al trasporto pubblico (o magari anche dal mezzo privato a motore) volessero utilizzare in sicurezza la bici, il monopattino o qualunque altro mezzo di trasporto attivo?

Sarebbe sicuramente un po’ sconveniente per alcuni, ma scontentare qualcuno in questo momento è il minimo sindacale per soddisfare il bisogno della collettività.

Questi 200 km di strade interdette al traffico non dovrebbero essere, ovviamente, ottenute a macchia di leopardo, ma (come si usa fare nei biciplan) costruendo radiali e tangenziali in grado di garantire l’accessibilità ai luoghi della città facendo bene attenzione che ogni luogo abbia accesso a uno di questi corridoi in un raggio di 500 metri.

Questo tipo di soluzione non è una novità, ma è quanto viene adottato da circa un decennio in diverse città del Sud e del Centro America con il nome di “Ciclovia” (mutuata anche dal Comune di Roma da un annetto con il nome di “ViaLibera”): si tratta del transennamento di intere arterie che attraversano la città per consentire il transito solo alla mobilità attiva.

La ciclovia a Quito, Ecuador

Questo intervento di urbanismo tattico viene effettuato solitamente durante il fine settimana e interessa la viabilità principale. Nel nostro caso si tratterebbe di adattare il provvedimento alla situazione, rendendolo semipermanente e riguardante esclusivamente alcune strade di viabilità secondaria.

Pochi mesi fa il nostro team aveva fatto un esercizio simile per quanto riguarda l’asse Milano-Monza, andando a ipotizzare una greenway metropolitana che abbiamo chiamato MIMO e che ha raccolto l’interesse di molte testate giornalistiche. Avevamo proposto questo tipo di intervento utilizzando Viale Sarca (che unisce il centro di Milano con Sesto San Giovanni). Nelle interviste i giornalisti ci hanno spesso chiesto quanto tempo ci volesse per realizzare l’intervento è la risposta è sempre stata che i tempi sono quelli decisionali più qualche mese per la piantumazione degli alberi. Se saltiamo la piantumazione degli alberi, la soluzione diventa immediatamente realizzabile.

Nel corso delle prossime settimane proveremo a rendere un po’ più articolata questa proposta entrando nel merito delle politiche applicative e delle strade che potrebbero essere utili allo scopo, nella speranza che questa possa trovare riscontro a Palazzo Marino per governare l’auspicato ritorno alla normalità.

Ovviamente il modello che stiamo qui presentando è pensato a uso e consumo della città di Milano, ma può essere adottato in tutte le grandi città con alti livelli di preferenza del trasporto pubblico. Nonostante questo, può essere introdotto anche in città più piccole per favorire l’abbandono dell’automobile da parte del maggior numero possibile di persone.

Nell’attesa che questo maledetto virus allenti la morsa al più presto e ci lasci liberi almeno di tornare a circolare, l’unica cosa che possiamo fare è pianificare il ritorno alla normalità.

Commenti

  1. Avatar Gianni ha detto:

    Ciao a tutti, ho molto apprezzato l’articolo. Posso dire di essere ciclista da sempre (cioè da circa 60 anni) e di aver notato sicuramente, almeno per Torino, un certo cambiamento della mobilità urbana con un notevole uso della bicicletta nella mobilità cittadina. Negli anni 90 ho avuto modo di conseguire una laurea in architettura con indirizzo urbanistico che mi ha consentito analisi dettagliate di tutte le proposte progettuali a livello urbanistico sia a livello cittadino che metropolitano. Mi spiace sottolineare come il progetto di Gregotti e associati non abbia prestato la minima attenzione a tali aspetti della mobilità urbana ma d’altronde la stessa occasione è stata persa anche con le giunte di sinistra nel 2006 in occasione della realizzazione tardiva dell’unica linea metropolitana, ove la riprogettazione di un’arteria che attraversa da est ad ovest la città non ha consentito di prevedere una soluzione adeguata per i ciclisti. Ciò nonostante ormai fosse decaduta la decantata nomea della “città dell’automobile” che per anni ha impedito la realizzazione di una mobilità compatibile con una politica ambientale nonostante sindaci illuminati putroppo forse troppo impegnati dall’emergenza brigate rosse. Certo ogni volta che ho modo di visitare capitali e città estere quali Parigi, Vienna o Barcellona, la quale ha saputo nell’ultimo decennio riconvertire all’uso della bicicletta una quota considerevole della mobilità urbana, non si può non provare invidia per quei cittadini così significatamente tutelati dalle politiche illuminate dei loro amministratori (e non solo nell’uso della bicicletta) stante il costo in vite umane a danni subiti dai ciclisti quotidianamente. Concludo evidenziando quanto sia importante incentivare una crescita culturale che renda veramente usufruibile a cittadini e sopratutto ai turisti l’uso della bicicletta negli spostamenti cittadini (con particolare riferimento ai centri storici) e che ho avuto modo di verificare carente anche in città visitate dell’Emilia Romagna tradizionalmente votate all’uso di tale mezzo (quali Ferrara, Ravenna, ecc). Speriamo veramente che le riflessioni a cui ci deve portare in evento così tragico, in parte frutto di politiche dissennate che hanno portato a cercare di risanare il bilancio pubblico con tagli alla sanità e alla ricerca stante poi sventagliare in ogni occasione il primato del nostro sistema assistenziale (e noi piemontesi ne sappiamo qualcosa) a livello mondiale, ci porti verso una maggiore coscienza civica e sopratutto a guidare i futuri politici, se ancora avranno un futuro, a delle scelte volte non a politiche populiste bensì mirate a criteri di razionalità e salvaguardia delle risorse ambientali affinchè il passaggio momentaneo nel nostro pianeta non ne comprometta il futuro per coloro che ci sostituiranno. Buone future passeggiate a tutti.

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