Tratto dalla raccolta di viaggi: “Abbondanti dozzinali”
Il titolo può sembrare strano, ed è volutamente grottesco, nasce da un gioco di amici che auto-ironizzava sulla nostra scarsa organizzazione dei primi viaggi, sulla scarsa preparazione fisica, su tutto-ciò-che-non-è-romanzato.
E questo è anche un po’ il taglio della narrazione dei miei diari: grottesco, surreale, ironico, con un occhio disincantato sempre teso al lato antropologico dei posti visitati…
15/8/2010 SANTA SEVERA – TOLFA – MANZIANA – BRACCIANO – LAGO DI MARTIGNANO (80 km)
Dopo una settimana di riposo, torno ad avere voglia di strada e di chilometri. La sveglia stavolta è alle 6.15. Roma dorme ancora, tra qualche ora si alzerà per andare al mare. Vago per la casa ancora nella semioscurità alla ricerca di cose necessarie e non.
La discesa fino a Stazione Trastevere è leggera e fresca, la bici carica si fa strada attraverso l’umidità, l’unico rumore che si sente è quello della gomma sull’asfalto, nessun attrito. In stazione tossici canticchiano motivetti in falsetto. Odore di urina diffuso e persistente. A quest’ora, di ferragosto, in giro ci va solo chi non ha un posto dove andare. Al bar della stazione, un uomo ordina una birra Moretti da 66 cl. “Gliela apro?” “Sì grazie”. Sono le 7.30 del mattino.
Arriva Federico, saliamo sul treno per Civitavecchia dove già ci aspetta Laura. Scendiamo a Santa Severa che il mattino è ancora tiepido. Alla stazione, un africano parla al cellulare. Ripartito, il treno si lascia dietro la gialla desolazione dei campi deserti per il giorno di festa. Due ragazzi probabilmente reduci dalla nottata ci chiedono inutilmente una cartina per fare una canna.
Dopo averli lasciati sul marciapiede della stazione, ci mettiamo finalmente in cammino: la bici di Laura ha la ruota posteriore paurosamente incurvata da un recente tamponamento, così il carico e i bagagli vengono ripartiti sulle altre due. Poche centinaia di metri di Aurelia, un bar di una stazione di servizio miracolosamente aperto, e svoltiamo per la strada provinciale verso Tolfa: subito il paesaggio muta: boschi, pascoli, e salita; prima dolce e non impegnativa, poi strappi più violenti, tornanti e lievi saliscendi.
Nei pascoli attorno, “bovoni” (come me li chiamava mia madre anni e anni fa) e mucche. Un asino si divincola nei cespugli proprio accanto alla strada. Molti ciclisti salgono e scendono per i tornanti, bici da corsa e tenuta colorata. Si sale sempre, in maniera irregolare ma costante: passiamo un torrente con dei grandi sassi, l’acqua giallastra. Intorno, colli già travestiti da monti; la quota di Tolfa è di 484 m s.l.m., ma il paesaggio circostante ricorda quello dell’entroterra còrso, i boschi verdissimi cui la macchia mediterranea ha ormai ceduto il passo, poi ancora vasti pascoli in pendio. Più in là, abbeveratoi sparsi, senz’acqua, senza bovini vicino.
Ci fermiamo sotto l’ombra di un capannone agricolo a bere integratori e mangiare cioccolata, mentre nello spiazzo sotto di noi preparano una pista a ostacoli per cavalli. Uno degli agricoltori sembra vestito da astronauta, chissà perché. Intanto, il sudore mi ara la barba. Un paio di chilometri in discesa, ancora saliscendi e ricomincia la salita, lo strappo finale per il paese. In alcuni tratti la pendenza supera il 10%. Cogliamo delle succose more a bordo strada, ogni tanto ci avvolgono violente vampate di liquirizia dai prati.
Tolfa, festa per l’Assunta (precaria pure lei?); nel giardino comunale c’è uno stand gastronomico, ma non servono cibi fino alla fine della Messa: si propone di tentare la comunione per scroccare pane e vino, o al limite di cimentarsi col battesimo per usare l’olio come condimento. Superata la piazza, ci aggiriamo per le vie semideserte del paese in cerca di cibo. Passiamo davanti a un chiosco che vende economici panini a 2 euro, nonché vino a 50 centesimi il bicchiere, ma rimandiamo il lauto pasto per salire alla Rocca dei Frangipane, l’antico castello in cima al paese. Lasciate le bici presso la casa di una famiglia di bestemmiatori piemontesi (che, assai diligentemente, non mancano di inveire contro la Vergine, giacché è il suo giorno: meticolosi), saliamo le ultime due rampe di scalini scavati nella pietra, per riposarci e fari cullare dal panorama e dai venti che si incrociano sparpagliando il sudore sulla fronte e per la valle.
La mia maglietta nera, colata e sudicia, viene ribattezzata Sindone, tanto per restare in tema religioso. C’è un piccolo santuario, la grata a protezione dell’ingresso, qualche monetina buttata al suolo, e un cartello: “A causa dei ripetuti furti alle offerte per la Madonna, si prega di tirare le monete il più lontano possibile”. Arrampicandoci a piedi nudi per un passaggio a destra del cancello, che è chiuso con un lucchetto, entriamo nella parte antica della rocca, tra i merli e gli archi di pietra grezza che sfidano tempo e gravità. Tra i mattoni crescono finocchio selvatico e menta, facendosi largo tra le crepe. Causa mancanza liquidi interni non riesco a consumare l’antico rituale della pisciata panoramica sulla vallata, dal punto più alto della rocca. Un motivo in più per tornarci.
Scendendo, veniamo cordialmente intercettati (e importunati) dai piemontesi, che si dicono appassionati ciclisti e ci salutano a più riprese (leggi: ci sequestrano): “Se andate verso Manziana”, ci dicono, “bevete l’acqua che lì è buona” – “Ma che sta a dì,” lo interrompe il bestemmiatore baffone, “li vuoi fa’ avvelenà? È sulfurea quell’acqua! Ma fatela bere prima alla signorina!” “Ma so’ ggiovani, so’! Je fa bene quell’acqua! È friccicarella!”, continuano a discutere mentre ci allontaniamo sempre più affamati. Torniamo giù in paese, e ci attende l’amara sorpresa di un chiosco chiuso da ben 9 minuti: ci tocca ripiegare sulla più costosa trattoria “da Maria”. Qui ci si rilassa per un paio d’ore, dividendo in modo fraterno un piatta di pasta ai funghi e tartufo, uno di formaggini tipici e uno di melanzane e zucchine sott’olio, oltre a un mezzo litro di rosso della casa e caffè. Il conto è ingrato, ben 10 euri a testa.
Riempiamo le bottiglie a una bella fontana in paese, mi avvicino, bevo a sazietà, alzo lo sguardo, la barba ancora gocciolante, leggo “acqua potabile”. Meno male. Ci lanciamo in un bellissimo tratto di discesa, ancora pascoli e boschi, ma i colori, complice anche la luce del pomeriggio, cambiano, e lo scenario si tinge di bruciato. Oltrepassiamo degli stupendi scorci di campagna alla ricerca della cosiddetta “acqua friccicarella” consigliataci a Tolfa, senza però trovarne la fonte. Si presentano brevi ma incisivi strappi di salita, mentre costeggiamo un torrente semiessiccato, a tratti melmoso.
Ci fermiamo presso un abbeveratoio, dopo esserci urlati a vicenda canzoni di Battiato e Rino Gaetano durante la pedalata: qui ci attende un vecchio cane da pastore bianco, piuttosto malandato, lucertole color dell’asfalto e un cavallo dietro un recinto. Mentre ci riposiamo tirando al cavallo qualche meletta selvatica, troppo agre per noi, il cane si avvicina rantolando, ci annusa: a tratti spalanca le vecchie fauci, ma è pacifico, solamente è in erezione. Voltandosi ostenta un paio di enormi testicoli, poi si accascia a terra, riportando lo scenario alla situazione di partenza. Federico in seguito congetturerà sulla natura dell’asma del cane, da mettere secondo lui in relazione al suo stato di eccitazione sessuale.
Proseguiamo, dall’alto un complesso di vecchie costruzioni, forse un monastero, ci guarda solenne mentre solchiamo la valle. Le colline, benché dolci allo sguardo, si rivelano aspre al pedale. Ci fermiamo varie volte, di cui una per raccogliere degli aculei di istrice, mele selvatiche e prugnole.
Dopo tratti ombrosi in salita, castagni, querce, pini e infine poderi, entriamo a Manziana, dove ci fermiamo per abbeverarci, quindi, passato l’omonimo bosco, a Bracciano, dove facciamo provviste per la sera. In seguito alla spesa diventiamo una sorta di condomini su ruote, per il carico aumentato; il pomeriggio volge al termine e le gambe cominciano a lamentarsi. Da qui la strada si fa più trafficata e pericolosa: percorriamo qualche chilometro di Braccianese verso Roma, poi il lago decide capricciosamente di presentarsi tutto insieme, e lungo la strada per Anguillara ci sorprende un’immobile ma ingombrante distesa blu; ci immettiamo nel lungolago tra lievi saliscendi e curve improvvise. La luce del tardo pomeriggio dipinge in modo tenue e delicato i contorni del paesaggio, e la stanchezza ci morde le gambe: si pensa di fermarsi prima di Martignano, e si comincia a studiare il posto adatto.
Dopo una sosta all’ingresso di Anguillara, dove stazionano tedeschi e americani, decidiamo però di portare a termine la tappa prevista , rinfrancati da un poker di pensionati su una panchina, tutti canuti, tutti in camicia bianca. “Per Martignano sono cinque chilometri, o poco più, se siete gente che pedala ci arrivate in un quarto d’ora!”. Facciamo così l’ultima salitella a fianco del centro di Anguillara, paese i cui edifici sono ammassati su un declivio che dà sul lago, il Duomo in pizzo sulla parte posteriore, come se si fosse attardato lassù e non avesse trovato un posto adatto. Mentre mi domando se sia irriverente ridere del necrologio della signora Mafalda Cresca, nel vedere un’avvenente roscia lentigginosa appostata in un angolo per traversare la strada, non riesco a trattenermi dall’urlarle in faccia “Signorina!”, per poi dileguarmi.
Qualche centinaio di metri e incontriamo una vecchia chiesetta e con lei la strada per Martignano; passiamo un’antica fonte tra i pascoli bovini ed arriviamo allo sterrato finale per il laghetto, cugino minore di quello di Bracciano. Qui, tra le colline bagnate ormai dalla luce d’oro del tramonto, complice anche la polvere che sollevano le automobili di ritorno dal lago, la salita dissestata e la stanchezza, ci concediamo – di comune accordo, nessuno ha ceduto per primo – il vergognoso lusso di fare gli ultimi cento metri con le bici al braccio. Arriviamo allo specchio d’acqua che l’ultima luce del giorno già sguscia su per i colli, un mezzo bagno nelle acque già fredde e ci si accampa, montando le tende nella semioscurità.
Ci uniamo a un gruppo di simpatici campeggiatori, abusivi come noi, sedendoci al loro fuoco: sono di Pomezia, è da due notti che sono qui e sono decisamente più attrezzati di noi; dividono con noi la loro cena perché devono finire alcune cose, noi dividiamo con loro il vino e le bottigliette di liquore che mi sono portato appresso da casa: nocino, limoncello, finocchietto e mirto. La notte scorre umida e tranquilla, turbata solo dalle ansie di Federico che si sveglia ed esce dalla tenda solamente per togliere il suo morbidissimo sellino dalla bici, proteggendolo in tal modo da presunti furti.
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