Sardegna in bici: il Sulcis Iglesiente e la costa sud-ovest (Tappe 3 e 4)

Tratto dalla raccolta di viaggi: “Abbondanti dozzinali

Il titolo può sembrare strano, ed è volutamente grottesco, nasce da un gioco di amici che auto-ironizzava sulla nostra scarsa organizzazione dei primi viaggi, sulla scarsa preparazione fisica, su tutto-ciò-che-non-è-romanzato.
E questo è anche un po’ il taglio della narrazione dei miei diari: grottesco, surreale, ironico, con un occhio disincantato sempre teso al lato antropologico dei posti visitati…

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Tappa 1
Tappa 2
Tappe 3 e 4

24/4/2013 PORTIXEDDU / GUASILA (58 km)

Il mattino ci coglie già maturo, mentre noi siamo ancora addormentati e bisognosi di ore di sonno. La prima decisione della giornata è quella di fare un dono, o, mettendola in altri termini, di liberarmi di un peso: lascio infatti i miei jeans laceri sul filo dei panni di Corallo (lui mi dice “io riutilizzo tutto, tu lasciameli che qualcosa ci faccio”), a mo’ di simbolico funerale e di metafora del cambiamento di tappa e giornata. Lasciamo così casa sua accompagnati da una pioggia sottile e persistente, e dopo aver trascorso due chilometri insieme a lui le nostre strade si dividono: passa infatti una Punto rossa utile per il suo autostop verso Cagliari, il tempo di un saluto veloce e ognuno va per la sua strada.

La strada è pianeggiante e immersa nella campagna, le capre attraversano la strada. I pastori salutano cordiali. Giungiamo così al bivio tra Arbus e Fluminimaggiore, decidendo di fare una deviazione per quest’ultima per una seconda colazione, visto che altri paesi sulla strada non ce ne saranno per un bel po’.

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Fluminimaggiore è un grazioso paesino costruito attorno alla Statale 126 dove riceviamo sorrisi e saluti. Murales di protesta contro uno Stato di cui arriva soltanto l’eco ci accolgono su uno dei primi muri. Nel bar in cui ci fermiamo colazione suscitiamo curiosità e simpatia, e non senza rimpianti siamo costretti a tagliare dalle nostre mete il tempio di Antas, divinità pagana, che richiederebbe una deviazione di altri 12 km che il tempo che abbiamo a disposizione non ci permette. Impacchettiamo le nostre cose insieme ai consigli sulle strade ripetuti più volte del necessario, e ci accingiamo ad affrontare la salita per Arbus, 18 km di tornanti per 500 m circa di dislivello.

La scalata è lenta, inesorabile e costante, ma molto più agevole dello strappo di ieri, sarà che ormai siamo abituati, sarà che è meglio salire un po’ alla volta che trovarsi in verticale. Vecchi muretti proteggono la carreggiata dai tornanti, e sovrastano altre miniere abbandonate e sepolte dalla vegetazione. Dopo qualche pausa e i costanti saluti degli automobilisti, arriva l’epifania del valico: folate violente di vento, che prima di spostavano la ruota anteriore dall’asse, ora ci danno il benvenuto al traguardo.

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E dopo il valico si apre l’ennesimo paesaggio diverso in pochi chilometri: una strada beata in falsopiano, impercettibile discesa che si snoda tra i pascoli a serpentina, facendo lo slalom tra pecore e rocce aguzze. Ancora una salita e qualche pisciata a bordo strada, ed arriviamo ad Arbus. Arbus silente e digiuna, perché il tuo giorno di chiusura è il mercoledì? Perché siamo partiti così tardi, arrivando alle 3 passate da te? E soprattutto, perché non abbiamo fatto scorte di cibo a Fluminimaggiore?Fatto sta che i quattro bar del paese – case diroccate in pieno centro – ci negano qualsivoglia acquisto che non sia un campari o un’Ichnusa, mandandoci da uno all’altro in cerca di cibo. Carboidrati. Calorie, cazzo. La gentile banconista di uno di questi ci manda al “Rifugio”, indicandoci una strada in ripida discesa, “lì trovate di sicuro qualcosa da mangiare e mi sa che è uno dei pochi aperti”.

Ci inoltriamo per vicoletti scoscesi a pendenze paurose, perdendo una parte del dislivello accumulato in salita col sudore. Quando leggiamo il cartello fuori, “panini – pizza – kebab”, la fame è tanta che la tradizione del buon cibo sardo può anche essere accantonata in nome del riempire lo stomaco. Tre o quattro avventori al bancone, “vorremmo mangiare qualcosa”
“Spiacente ragazzi, non abbiamo niente da mangiare… solo patatine in bustina”.
Oh, no. Dieci minuti di sconforto: intrappolati sul fondo di una vallata come la scolopendra nel lavandino di Corallo, senza forze per uscirne e senza cibo per procurarsene, moriremo forse in quest’imbuto? Giammai.

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Ci si anima di fierezza, e si consuma un nuovo strappo in salita recuperando l’altimetria perduta, per ritrovarsi alla curva successiva del bar precedente, dove troviamo panini in quantità. È interessante fermarsi a pensare su come la nostra presenza possa generare fenomeni sociali insoliti nella quotidianità del paese, secondo i quali nella voglia di darci indicazioni la giovane barista un po’ in carne e l’anziano signore cordiale si mettano a parlare tra di loro per consigliarci la strada migliore per San Gavino, dove abbiamo appuntamento con Roberto e il suo pick-up.

Forse non si sarebbero mai parlati se non fossimo arrivati noi con la nostra disorganizzazione. O forse immaginare tutto questo non vuol dire che sia per forza così. Stabilito che la strada migliore è quella che evita di arrivare a Guspini, per non salire inutilmente ancora, ma scendere per la piana fino a San Gavino, alla fine il signore decide (ci impone) di scortarci all’uscita del paese col suo scooter:

“Ma non è necessario, la strada è quella, non si preoccupi!”
“Nessun problema, devo andare lì”
“Grazie, è stato gentilissimo!”
“Immagina” (versione personale di “figurati”, almeno penso)

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All’uscita da Arbus ci attende una discesa vorticosa lungo la vallata, circondata da monti aspri come i lineamenti di chi li abita. Durante la pedalata, Tore mi dice che la sera precedente ha notato in Corallo gli stessi lineamenti del viso di sua nonna, per poi scoprire che sua madre era di un paese molto vicino al suo, Guasila.

Proseguiamo per una pianura stretta tra due rilievi, punteggiata di bovini al pascolo. Il Sulcis-Iglesiente è passato, ora ci troviamo nel Campidano, che per l’occasione ci accoglie travestito da Olanda: pale eoliche, erba verdissima e increspata dal vento e pianura implacabile.
Attraversata Gonnosfanadiga, percorriamo un bellissimo tratto desolato, quasi dieci chilometri senza incontrare un solo veicolo, la giornata nuvolosa e il vento forte accrescono ancor più la sensazione di trovarsi nell’Europa del Nord. È d’obbligo procedere senza mani.

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Ma ahimé, gli ultimi chilometri di viaggio non sono così piacevoli, eppure inevitabili; la stradina deserta confluisce infatti nella trafficata 197, un rettilineo a due corsie dove macchine e tir sfrecciano oltre i limiti, risucchiandoci le magliette con lo spostamento d’aria. Per di più, il vento che prima era di lato, ora arriva dritto in fronte, causando cervicale e doloretti. Otto chilometri così, e arriviamo finalmente al bivio per San Gavino, dove ci attende Roberto per caricarci sul suo pick-up. I 28 km restanti a Guasila sarebbero stati sì possibili, ma a rischio tramonto e buio, quindi ci concediamo un piccolo inganno.

Con le operazioni di carico delle bici sul fuoristrada, possiamo dire che il nostro viaggio ha un suo compimento, d’ora in poi davanti a noi c’è solo cibo e ospitalità. Scarichiamo le cose a casa dei genitori di Salvatore, edificio ricostruito sulle fondamenta di quella che era stata la casa dei suoi nonni. Mi mostra tutti gli utensili che usavano per lavorare la terra e il grano, e la trave di frassino, unico pezzo rimasto originale, oggi col ruolo simbolo di separatore tra soggiorno e cucina.

“Conosci molta gente a Guasila, giusto? Ci venivi spesso?”
“Sì, le estati, ora è un anno che non ci venivo”
“E sono rimasti molti amici in paese?”
“Giusto qualcuno, moltissimi non ci stanno adesso, sono in Italia”

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La sera siamo a cena dal padre di Roberto, che ci attende col porceddu che gira già rassegnato sulla brace. Bestie allevate da loro, e cucinate come si usa da tempo immemore. E io per la seconda sera di seguito vedo la forma dell’animale che mangio. Il resto è culurgionis, cardo bollito, vino fatto in casa, grappa fatta in casa, case mrazu, il celebre formaggio fatto coi vermi, poi bar. E oblio.

25/4/2013

Il risveglio è tardivo, la giornata di festa qui ha un colore e un sapore diverso. Solo il vento resta a giocare tra i vicoli, e nella cittadina desolata in cui si sentono solo rumori di posate del pranzo è padrone incontrastato. Se non ci fossimo svegliati dopo mezzogiorno, direi che l’atmosfera è da mezzogiorno di fuoco. Un traghetto e un ritorno ci attendono in serata, con tanti progetti ciclistici. Perché di solito le mete quando crescono diventano partenze.

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Commenti

  1. Avatar Roberto ha detto:

    Ottimo, abbondante e per nulla dozzinale.

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