La Vuelta che non c’era

La Vuelta che non c’era
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La Vuelta a España 2014 si è conclusa domenica a Compostela. La strada ha stabilito che la vincesse Contador davanti ad un arcigno e sorprendente Froome e all’immancabile Valverde di questo 2014. In fondo è giusto così, con la corsa che è stata conquistata dal più grande campione al via, benchè in condizioni fisiche precarie come tutti i suoi rivali. Eppure la Vuelta 2014 non si è mai corsa, e forse non è mai esistita.

Per tre settimane la Spagna della crisi, o almeno una sua porzione, è stata attraversata da un gruppone di ciclisti più o meno colorati e omogeneamente sudati. Hanno corso dai 150 ai (rari) 200 km al giorno, quasi sempre tutti assieme, amichevolmente, fino agli ultimi 2km quando, per dare una parvenza di spettacolo agli (assenti) spettatori, si sono esibiti in un po’ di scatti o di volate. Lo stesso hanno fatto ai traguardi volanti, probabilmente per rendere omaggio agli sponsor di giornata.
In televisione non avete visto nulla, almeno qui in Italia, se non via satellite. La Vuelta la vedremo sulla Rai dall’anno prossimo, ad ogni modo con la calura tardo-estiva non deve essere stato difficile prendere sonno nei pomeriggi. Ma copertura televisiva qui conta poco, perchè se fosse stata solo l’invisibilità a togliere consistenza a questa Vuelta ci sarebbe poco da dire, ma il problema di questa corsa, specchio simbolico di un ciclismo moderno sempre più onnipresente, è invece quello che si è visto.
La corsa spagnola, d’altronde, è ormai diversi anni che ci mette del suo disegnando tracciati che non interesserebbero nemmeno al ciclista più disperato: quei lunghi piattoni deserti con una rampa di garage nel finale che, immancabilmente, cominciano a riscuotere successo pure nel resto d’Europa. Il problema è che qui all’inconsistenza del tracciato si affianca l’inconsistenza dei protagonisti, incatenati ad un attendismo difficilmente aggirabile, che si fatica a spacciare come suspense.

Le domande che scaturiscono da questa corsa fantasma sono sempre le stesse: a chi giova? Fa bene a chi investe nel ciclismo ridurre la competizione ad un manipolo ristretto di scattisti? Fa bene a chi ospita le corse restringere l’interesse all’ultimo quarto d’ora? Fa bene ai ciclisti nascondere la loro (sempre encomiabile) fatica quotidiana in nome di un copione sempre più breve e sempre più uguale a se stesso? In definitiva, fa bene al ciclismo questo lento declino verso l’invisibilità, le cui uniche eccezioni sembrano essere quelle scandalistiche, che siano legate a presunti motorini, risse o gli immancabili allarmi-doping?
Ovviamente no, non fa bene a nessuno, e le strade di Spagna ne sono la dimostrazione, con una grande corsa a tappe che mai si era vista con così pochi spettatori a bordo strada. Qualcuno darà la colpa al caldo (e quanto sia torrido il sud spagnolo a fine agosto lo sa bene persino chi ha ideato il calendario del ciclismo), qualcun altro alla crisi che costringe gli spettatori al lavoro, o quantomeno alla ricerca di un reddito. Ma a conti fatti, queste sembrano soltanto scuse di contorno, perchè nemmeno nelle condizioni favorevoli ci sarebbe la fila per vedere ciò che non esiste.

Ora si riparte dalla Spagna, o quasi. Mentre in giro per il globo si corrono le ultime pre-mondiali, l’attenzione è tutta già puntata su Ponferrada, dove la prossima settimana andrà in scena la rassegna iridata. Un Mondiale minacciatissimo dalla crisi e salvato, forse, proprio da quell’energia che chi ama il Ciclismo ancora sente scorrere nelle vene, nonostante tutto. Ma quella sarà un’altra storia. E, si spera, pure un’altro ciclismo.

Commenti

  1. cauz. ha detto:

    Ecco, a proposito di terza settimana che la vuelta ha avuto il coraggio di riprendersi, l’orizzonte non è dei più positivi e l’intenzione di “amputare” la corsa spagnola (perdipiù confermando l’errore di mantenerla in questa pessima collocazione in calendario) è sempre più concreta e paradossalmente sostenuta proprio da chi dovrebbe essere la voce dei ciclisti:
    http://www.cpacycling.com/upload/documenti/DOCS42969627452_all_ES.pdf
    Resta da capire cosa ne pensa l’aso e paradossalmente sperare nel loro gigantismo per difendere almeno la durata della corsa.

    Per il resto, concordando con te in diversi punti a parte questa percezione differente sul pubblico, ti ringrazio dei contributi di prima mano sul ciclismo di base spagnolo, sono testimonianze che non sempre si trovano con facilità nemmeno su siti e forum in castigliano (il catalano purtroppo fatico troppo a leggerlo).

    A presto

  2. gabriele ha detto:

    Anzitutto grazie della replica!
    Chiarisco un po’ meglio la mia provocazione finale: quando parliamo di “pubblico”, usiamo una parola ombrello che copre segmenti molto differenziati. Questa Vuelta ha fatto il botto presso il pubblico generalista, poco attento all’intrinseca qualità sportiva, quello che appunto guarda la televisione, e certamente non scrive sulla stampa specializzata né sui forum; quel pubblico, tuttavia, che costituisce anche (ci piaccia o no, è un fatto demografico) la massa portante delle grandi folle a bordo strada, in Spagna come in Italia o negli USA. Della qual cosa abbiamo avuto discrete riprove sullo Zoncolan, purtroppo: per lo più fini intenditori della postura in sella o di attacchi a lunga gittata? Non esattamente.
    E lo stesso vale perfino in Francia: non scopro certo io che una parte del pubblico sulle strade francesi attende essenzialmente la carovana pubblicitaria. Un fenomeno che ha iniziato a registrarsi anche in Spagna.
    Nel 2012 e quest’anno, per la prima volta in anni e anni, ho sentito gente comune, a digiuno di ciclismo dall’epoca di Indurain, parlare della Vuelta, e secondo me è un dato di rilievo.
    Merito di un “ginocchio di Contador” dal fascino rohmeriano? Sicuramente.
    Comunque ne va preso atto, e a mio parere si tratta di un fatto promettente, anche perché potrebbe preludere (se confermato nel tempo, oltre la moda a due ruote del momento: tutto da vedersi!) a una controtendenza rispetto a quella contrazione evidentissima dei movimenti spagnolo e italiano.
    E, in questo senso, va detto che quest’anno, pesando la situazione col metro proprio della Spagna, di gente in strada ce n’era proprio parecchia. Lunghi tratti nel nulla vuoti? Inevitabile! Non ci sono paesi, e se ci si muove per assistere alla gara, a quel punto si va alla partenza o all’arrivo. Però in molti paesi si è vista gente in strada in orari impensabili, e gli arrivi (ma soprattutto, curiosamente, le partenze) sono stati spesso affollatissimi, soprattutto commisurando il tutto alla densità della popolazione. Poi se ci aspettiamo che qualche pazzo vada a fare l’eremita nel Moncayo per vedere la crono, non esiste: non ci andrei io (o sì, ma per il paesaggio e per fare trekking, e non per il ciclismo).
    Paradossalmente questo tipo di spettatori è stato “aiutato” da un percorso tecnicamente quasi monotematico e da una competizione minimalista. In primo luogo perché era facile concentrarsi logisticamente nei luoghi dove vedere (l’unica) azione dal vivo, in secondo luogo perché la dinamica di gara era molto accessibile. “Vediamo chi arriva primo oggi”.
    Non si tira avanti un movimento solo con figli e nipoti di corridori, massaggiatori e meccanici, ma anche con ragazzini che usano la bici tutti i giorni e che magari si esaltano vedendo Contador col kinesioptaping rojigualdo in televisione anche se non capiscono nulla di strategie di gara.
    Un certo modo di fare ciclismo professionistico è in estinzione, e non parlo per null’affatto di doping bensì del modello tra “aziendina familiare” e “fare la naja” che imperava in Italia e Spagna. Se ne sorgerà uno nuovo dovrà canalizzare energie che a quel mondo sono esterne, perché di per sé è ormai troppo contratto. Energie, attualmente, “ignoranti”.
    Il “nostro” problema, di appassionati, è che poi questo nuovo modello perpetui la bellezza vera del ciclismo, quella che magari questi nuovi protagonisti nemmeno conoscono (hai per caso mai visto qualche intervista agli atleti odierni sulle figure storiche del ciclismo? Sconcertante). Una bellezza che si può perpetuare solo attenendosi fermamente a ciò che caratterizza il ciclismo: il fondo estremo, la resistenza fisica in uno scenario esposto agli elementi, la tattica, i confronti psicologici prima che fisici, le strategie complesse con attori multipli. Tra l’altro.
    E allora come si coniugano le due cose?
    Ti dirò, per quel che vedo nel nostro “club ciclista” abbiamo avuto un piccolo boom di iscrizioni negli ultimi due anni dopo una magra decennale. Tre, quattro, cinque, venti persone, qualche ragazza. “Pajareros” che di ciclismo capiscono poco. Ma qualcuno – mica tutti – inizia ad appassionarsi, a cercare video storici… a incazzarsi perché nessuno attacca prima dei -2km all’arrivo.
    Quindi, prima di cedere allo sconforto, penso che si corre ogni anno, che si corrono tre GT, e che i percorsi cambiano pure parecchio nel tempo. Che i tre GT abbiano un taglio diverso tra loro e premino stili diversi… ci sta. Intanto evoluzioni positive non sono mancate: la Vuelta si è ripresa la terza settimana (spero non gliela levi l’UCI), e il Giro ha fatto scuola anche oltralpe con tappe trappola che han relegato all’oblio quei primi dieci giorni di puro biliardo ciclisticida che infestavano il mese di luglio. I Vosgi, dico io, fantascienza! E se il ciclismo italiano è al ribasso, il Giro 2006-2014 è clamorosamente al rialzo, pur con tutte le battute d’arresto fisiologiche.
    Detto questo, e tornando al tema, ti posso dire che sul pubblico alla Vuelta ho un raggio di esperienze ridotto, diciamo una quindicina d’anni, e senza esperienza diretta anteriore al mitico 2006 di Vinokourov. La mia impressione (confermata, per quel che può valere, dal raffronto con l’audience televisiva) è che, facendo il paragone con questi ultimi 10-15 anni, dal 2012 incluso ci sia stata in realtà una crescita notevole di pubblico in strada. E nota anche che quest’anno non si è passati nemmeno di striscio per Catalogna e Paesi Baschi, normalmente forieri di bagni di folla. La Galizia, è vero, ha un po’ deluso (tolta la folla assurda di Santiago; ma forse si è dovuto alla saturazione di tappe), però Andalusia, Navarra e Cantabria hanno sorpreso positivamente.
    Insomma, anche se la tv resta il modo migliore per seguire una tappa, fuori dall’inquadratura restano tante cose.
    Chiudo con un’osservazione: un movimento si disfa in pochi anni, ma ce ne mette molti di più a ricrescere (come un sistema sociale, educativo, universitario… tanto per fare esempi a caso). La Spagna entrerà a breve in una carestia epocale, a meno di miracoli, perché la tabula rasa degli ultimi anni si ripercuoterà sul futuro sportivo dei prossimi: viceversa, non è detto che questa breve ripresa dell’idillio con le due ruote riuscirà a crescere come si deve, se il terreno attorno si prosciugherà completamente nel frattempo.
    Per tornare al fantomatico ragazzino, o meglio ancora “ragazzina” (lì sì che la Spagna ciclistica piange amaramente), che si appassiona vedendo la “tamarra” Vuelta 2014, sarà tutto da vedersi se avrà modo di correre in sicurezza, crescere con strutture sportive serie di supporto, trovare squadre nel suo paese, e sbarcare al professionismo nel 2024… Se non c’è struttura, tra due anni la moda finisce, la bici si vende e ci si prende un bello scooter per sgarellare sui colli di Barcellona.
    Le linee di evoluzione dei fenomeni sono altrettanto composite quanto il termine “pubblico”, e spesso un comune denominatore come “ciclismo”, o perfino “ciclismo professionistico” sussume al contempo andamenti di segno opposto.
    Non aggiungo altro ché l’ho già fatta un tantinello lunga, ecco perché ho quasi smesso di scrivere di ciclismo in lingua italiana, almeno quando non vado in modalità madrelingua ho il limitatore automatico :-)

  3. cauz. ha detto:

    ciao Gabriele, grazie per le osservazioni che mi hanno fatto scoprire una serie di particolari che mi ero perso giocoforza restando ad osservare il mondo dal divano (nel caso della vuelta, in verità, da una scomoda sedia davanti al computer). Quello sulla chiusura delle strade soprattutto.
    Ciò detto, l’impressione “desertica” di questa Vuelta non era certo riferita all’Alpe d’Huez, quanto ai confronti con edizioni precedenti (tralasciando gli autodromi di infausta memoria), e rafforzata dal fatto che qui si era davanti ad una corsa con tutti i migliori del ciclismo mondiale o quasi, e con i tre campioni di casa a giocarsi la gara. Il risultato, dal punto di vista del pubblico, se la gioca con la Coppa Bernocchi corsa oggi, un martedì lavorativo, in provincia di Milano. Con tutto che la “crisi di pubblico” affligge il ciclismo italiano tanto quanto quello spagnolo, con quest’ultimo mezzo a durissima prova dalla progressiva scomparsa di gare, corridori e squadre che rischia di farlo scendere veramente nella “serie B” delle due ruote.
    Resta comunque che la vera assenza di questa Vuelta non è stata a bordo strada ma proprio tra chi l’ha corsa, partorendo un GT così insignificante che personalmente credo che lo dimenticherò tra una settimana. Un po’ come il Giro del 2012, per stare su tempi recenti. E per questo mi stupisce la tua provocazione finale.
    “Piace al pubblico”? Davvero? Le reazioni che ho letto io da qua (pure, se non soprattutto, da fonti spagnole) sono ben distanti. Ma sono una fetta parziale del tutto, e sarei ben contento se l’altra metà del bicchiere fosse più piena del previsto. Mi chiedo pero’ per quanto possa piacere, e come sempre cosa possa “seminare” un ciclismo così povero di contenuti. Ad occhio molto molto meno di quel “ciclismo popolare” che in tutti i continenti sta segnando la strada da seguire, e su cui l’esempio spagnolo è sicuramente lungimirante.

  4. gabriele ha detto:

    Ciao cauz,

    mi scuso per la prolissità dell’argomentazione ma approfitto di questo tuo commento per dare un paio di spunti su una questione che mi sta sul gozzo da un po’.
    Ho avuto la possibilità di seguire la Vuelta in diretta e, in certe occasioni, anche a bordo strada; credo che sia necessario correggere un po’ il tiro sull’assenza di pubblico lungo le strade spagnole, in particolare parlando di un’edizione come questa, che ha invece riscosso un successo notevole.
    Anzitutto va chiarito che effettivamente in Spagna meno gente, in termini di numeri assoluti, assiste alla Vuelta a bordo strada; probabilmente anche in termini di numeri ponderati.
    Tuttavia se vogliamo dare una lettura del fenomeno, e correlarlo addirittura all’evoluzione del ciclismo moderno, bisogna tener presente alcuni fattori, in assenza dei quali quello delle “strade vuote” diventa un luogo comune abbastanza trito e ritrito, spesso rimbalzato nei forum da persone che la Vuelta neppure hanno la possibilità di seguirla per un paio d’ore di diretta televisiva quotidiana, men che meno a bordo strada.
    La prima valutazione che va fatta è che non ha senso stimare la presenza di pubblico in base a un confronto impressionistico per immagini televisive con Francia e Italia.
    In Italia l’affinità con la Spagna sta nel fatto che la gara si corra per lo più in un mese lavorativo, e che il pubblico tenda ad aspettare che la corsa passi sotto casa piuttosto che realizzare grandi spostamenti per seguire dal vivo la competizione. L’Italia, però, ha una densità abitativa doppia rispetto a quella della Spagna, il che significa, ceteris paribus, il doppio della gente intercettata dalla corsa. Il fenomeno è ulteriormente accentuato dal fatto che le aree montane dove la corsa, bene o male, deve recarsi per avere “salite” sono decisamente meno antropizzate che quelle italiane. Non è poi che i problemi economici condizionino il tracciato meno in Spagna che in Italia: si va dove c’è chi possa pagare, e se, ad esempio, a pagare è un autodromo situato fisicamente in un deserto come accadde tempo addietro, nel deserto si va e punto. E con deserto intendo proprio un luogo simile al Sahara.
    La Spagna comprende inoltre vaste zone che sono del tutto spopolate, e che la corsa deve giocoforza attraversare, a meno di non snaturarla trasformandola in una serie di kermesse intermezzate da trasferimenti in bus.
    Nel paragone con la Francia, oltre all’ovvia inconfrontabilità dell’impatto globale del Tour, entra anche l’effetto meramente demografico di quel +40% di persone che abitano in terra francese e che, come accennato, sono addirittura propense a muoversi per seguire la gara. Ad ogni modo, se per comparare gli ascolti televisivi si applica un moltiplicatore proporzionale, lo stesso andrebbe fatto a rigor di logica nei confronti del pubblico in strada.
    Aggiungiamoci due fattori non da poco: il fattore “massa critica”, per cui la gente va ad agglomerarsi dove più c’è densità, per cui la dispersione del pubblico agisce al quadrato come fattore scoraggiante; e il fattore “residui fascistoidi”, per cui in Spagna in molte occasioni le strade vengono chiuse dalle cosiddette forze dell’ordine parecchie ore prima delle corse ANCHE AL PUBBLICO CHE SI MUOVA IN BICI O A PIEDI (nonostante l’ovvia opposizione e lo scorno degli organizzatori della competizione). Ciò suole accadere specialmente sulle grandi o piccole salite, già di per sé molto più “fuori mano” di quanto capiti in Italia e Francia. Se mi devo fare un viaggio di parecchie ore per recarmi in situ, e scoprire che non mi si permette di andare verso l’arrivo in salita, la cosa risulta parecchio demotivante.
    Già da tutto questo si capisce come sarebbe del tutto fuorviante ricorrere al concetto “c’è poco pubblico a bordo strada (rispetto ai nostri standard)” per desumerne il grado di coinvolgimento ed interesse che la corsa riscuote nella popolazione.
    È questo è tanto più vero in un’annata come questa, dove il pubblico è stato in netto crescendo, come testimoniato da ascolti televisivi che “proporzionati” ai numeri italiani si tradurrebbero in qualche tappa da perfino 3 milioni di spettatori (e share del 20%).
    L’impressione è però che gli “spettatori degli spettatori” che assistono al fenomeno da un quadratino sgranato in streaming, magari sbirciando (giustamente) gli unici dieci minuti finali rilevanti durante il lavoro d’ufficio, finiscano per farsi condizionare da valutazioni pregresse e luoghi comuni.
    Nemmeno il Tour riempie il bordo strada di tutta la gara (in particolare ricordo tappe collinare alle pendici dei Pirenei o nelle piane centrali di vera desolazione, così come molti momenti nei Vosgi, questo stesso anno), e men che meno il Giro. Però quando pensiamo a queste due gare visualizziamo mentalmente i momenti con maggiore impatto di pubblico. Con la Vuelta, facciamo il viceversa., quando invece paradossalmente quest’anno ci sono state – se proprio – polemiche per una certa brutalità che la fascistissima Guardia Civil ha impiegato a suon di manganelli per contenere il pubblico che su certi arrivi era fisicamente straripante.
    Il podio finale ha visto una folla a dir poco clamorosa, così come diverse partenze di tappa, perfino in Andalusia. A questo proposito devo aggiungere, a margine, che se quelle sulla crisi sono sciocchezze (semmai ci sono molti disoccupati con tempo libero), quelle sul caldo sono tutt’altro che “scuse”: un’idea del genere può venire solo a chi non abbia tanta esperienza di attendere una gara a bordo strada… la differenza tra trenta e trentacinque (o più) gradi si soffre tutta.
    Insomma, avendo assistito a tante tappe tra tutti e tre i GT posso tranquillamente dire che il discorso sul vuoto alla Vuelta sia da prendere con le pinze: ha sicuramente un fondo di verità, ma in primo luogo non è correlabile facilmente con il coinvolgimento della popolazione nella manifestazione (almeno finché si fan confronti con Italia e Spagna invece che osservare l’evoluzione interna del fenomeno); in secondo luogo puzza parecchio di topos artefatto e anche un po’ stantio, dato che proprio negli ultimi tre anni il ciclismo “popolare” (amatoriale, urbano, funzionale) in Spagna ha trovato un’impennata incredibile, riflessasi anche nell’attenzione verso il mondo dei pro – a differenza dell’Italia dove la frattura, col tragico beneplacito delle istituzioni sportive – va verso l’insanabile.
    Detto questo, sono del tutto condivisibili le valutazioni su un GT che ha visto ridotta l’azione tra i protagonisti della CG agli ultimi 10′ in quasi tutte le tappe (salvo Ancares, praticamente), ma questo non è solo colpa del percorso, che presentava almeno due tappe montuose ben disegnate e moltissime tappe trappola (molto più che il Giro, ad esempio). Il modulo “mono-salita”, pur con una ottima varietà di tipologia di salite finali, è stato troppo prevalente, ma nemmeno in modo così stravolgente (5 contro 3). La colpa forse non era principalmente del percorso… d’altronde con Quintana in corsa avremmo visto qualcosa di diverso, probabilmente.
    Chiudo con una provocazione, comunque: questo piace al pubblico. Gli ascolti premiano. La gente a bordo strada si concentra su questi arrivi. Si ammassa sull’ultima salita lasciando vuote le precedenti (come pure in Francia e in Italia, quest’anno stesso). Che cosa facciamo, diamo retta al “gusto diffuso” o privilegiamo il fattore tecnico? Sapendo che magari ci faremo più chilometri per meravigliose sperdute stradine tra monti e colline dove di pubblico non ce n’è… Io sono nettamente per la seconda, ma allora attenzione a incensare il “fattore pubblico”. Di gare senza pubblico ne ho viste pure in Benelux, guai a pensare che siccome sono senza pubblico non hanno importanza, o magari che da quelle parti la gente non è interessata!

    Un saluto e complimenti per l’attivismo ciclistico!
    G.

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