Diari

La mia Sicilia d’inverno in bicicletta

La mia Sicilia d’inverno in bicicletta

Mi sbaglierò, ma ritengo che la bicicletta sia l’unico mezzo di trasporto con cui valga la pena di intraprendere un viaggio in una delle regioni più affascinanti della nostra Italia. Non si tratta solo di una questione di velocità di crociera che permette di apprezzare ogni singolo particolare di questa terra, il fatto è che viaggiare in Sicilia è un’esperienza che coinvolge i 5 sensi in una fusione sinestetica continua e che richiede, per essere apprezzata appieno, di una costante presenza dentro il paesaggio. Pedalare per la Sicilia significa spesso rimanere storditi dalla bellezza spropositata di alcuni scorci ed essere lusingati di continuo da sapori che parlano arabo e di mille e mille anni di storie di scambi culturali.

In fondo, tutto questo è veramente il minimo per un’isola adagiata al centro del Mediterraneo.

Regno delle due sicilie

Arriviamo a Palermo il 30 dicembre in una delle giornate più fredde che la città abbia ricordato negli ultimi decenni. Prendiamo una stanza in un piccolo hotel nel chiassoso quartiere a Ballarò, dove schiamazzi e allegria sono inscindibili dagli odori forti di uno dei quartieri mercato storici della vecchia capitale del Regno di Sicilia.

Ballarò bicicletta

Nonostante la neve e i ragazzi di strada che, non credendo ai propri occhi, si lasciano andare a esclamazioni caricaturali “Miiiii, la neve a Palermo!?!?”, abbiamo modo di fare un giro pigro per la città, alla ricerca delle perle architettoniche che la città sa offrire, ma soprattutto alla scoperta delle meraviglie della cucina di strada palermitana.

Palermo Neve
Tra panelle, cazzilli, pane con la milza, cannoli, stigliole e quant’altro,trascorriamo un paio di giorni incantevoli a bighellonare pigramente cercando rifugio dal maltempo all’interno di questo o quel monumento storico, lasciandoci stupire dai contrasti di una città custode di una storia millenaria stordita da mille clacson di automobilisti desiderosi di reclamare strada, salutare o richiamare l’attenzione di chissà chi.

Palermo Neve

Nonostante il maltempo, non sappiamo resistere al fascino suadente di un’architettura fatta di stili che sanno di contaminazioni nordeuropee e bizantine, arabe e barocche che si fondono tra loro apparentemente al solo scopo di lasciarti a bocca aperta.

cAPPELLA pALATINA
La mattina del 1 dicembre l’aria è fresca, le strade sono ancora bagnate e qua e là ci sono i rimasugli della neve e del capodanno scoppiato in strada. Attraversiamo la Porta Nuova e iniziamo a percorre via Vittorio lasciandoci il mare alle nostre spalle affrontando una salitella dolce e continua che, in meno di dieci km, ci porta a Monreale e al relativo duomo dove l’Arciverscovo sta impartendo la benedizione. Il duomo vale la propria nomea e mi perdo tra le milioni di tessere incastonate su tutta la volta.

verso Monreale
Da Monrale continuiamo verso ovest verso Partinico. La strada è un continuo di saliscendi morbidi, gli automobilisti sono pochi ed estremamente gentili. Ci guardano con curiosità, qualcuno ci saluta, altri scuotono la testa. Nonostante stiamo attraversando una delle giornate più rigide che l’ultimo secolo di Sicilia ricordi, là fuori ci sono circa 8° e, finché si procede in salita, va tutto bene. I problemi iniziano in discesa, quando il vento si insinua in ogni feritoia possibile tra i tessuti tecnici. Mani e piedi sono due ghiaccioli, ma gli occhi si beano di un paesaggio ricco di ulivi e aranceti. Il cielo grigio ci impedisce di goderne appieno e ne approfittiamo per pestare forte sui pedali alla ricerca di un ristorantino per fermarci, scaldarci un po’ e mangiare qualcosa. Ma il primo di gennaio, i locali aperti sono veramente pochi e il primo locale aperto lo troviamo dopo una trentina di km, a Trappeto. Sono le 3 del pomeriggio e inizia lentamente a diminuire la luce disponibile.

Ben rifocillati, ricominciamo a pedalare lungo la costa superando paesini che guardiamo con una certa indifferenza. Se questi luoghi d’estate sono un carnaio inaffrontabile, d’inverno rappresentano l’emblema della desolazione. Tiriamo dritti fino a Castellammare del Golfo dove, dopo aver trovato un affittacamere gentilissimo che ci racconta la storia delle sue 4 mogli, la visione del castello (ma ancor più una doccia calda) ci rinfranca della fatica e del freddo della giornata.

All’indomani partiamo da Castellammare che ancora non sono le 8. L’esperienza della giornata precedente ci ha insegnato che fare cicloturismo in inverno significa approfittare nel miglior modo possibile delle ore di luce disponibili. Il cielo è terso e c’è un venticello gentile che soffia da nord spingendoci mentre saliamo verso Calatafimi dove ci fermiamo per continuare nella ricerca del cannolo perfetto.

Segesta biciclettA
Prima però, occorre una breve sosta a Segesta il cui tempio dorico ci conquista già da lontano. Continuiamo per Salemi dove mangiamo un boccone al volo mentre chiedo in giro (provocatoriamente) dell’ex sindaco della città, Vittorio Sgarbi, e poi continuiamo sospinti dal vento in quella che sembra una Valle degli Orti munita di pale eoliche che, sempre seguendo le logiche sgarbiane, mentre pedalo non riesco a decidere se deturpino o valorizzino il panorama circostante.

Dopo Salemi
Da Salemi inizia una lunga e morbida discesa che ci porta sulla costa ovest dell’isola attraversando filari infiniti di vite dove si produce uno dei vini che maggiormente amo al mondo: il Marsala. Ed è proprio nella città che vi dà il nome che ci stiamo dirigendo, nella speranza di arrivare in tempo per visitare una delle cantine. La cantina Florio, nostro obiettivo, purtroppo è chiusa per inventario.

Marsala cantine Florio
La decisione di andarcene direttamente a Marsala ci ha costretti a saltare Trapani, San Vito lo Capo ed Erice, ma quando abbiamo scoperto che non era possibile attraversare la Riserva dello Zingaro in bicicletta, abbiamo deciso di rimandare l’esplorazione del trapanese a un altro momento futuro.

E poi a Marsala abbiamo appuntamento con Secil e Alexis, una coppia greco-turca che vive a Istanbul e che da una settimana circa sta girando l’isola in direzione contraria alla nostra. Ci troviamo in un camping di cui siamo unici ospiti e dove passiamo la sera a mangiare pandoro, bere Marsala e a scambiarci informazioni sulla strada che ci aspetta.

Con Secil e Alexis
Le temperature tipiche del tradizionale inverno siciliano si sono ristabilite e trascorrere la notte in tenda è particolarmente piacevole.

All’indomani veniamo svegliati da un sole caldo che subito porta in temperatura la tenda e, dopo aver ripiegatotutti gli attrezzi da campeggio e una buona colazione a base del pandoro avanzato il giorno prima, ci salutiamo dandoci appuntamento per la prossima volta a Istanbul. Noi continuiamo verso sud-est, loro verso nord-ovest. Il vento, ancora una volta, è dalla nostra parte.

Da Marsala si prosegue verso Mazzara del Vallo dove abbiamo appuntamento con Vincenzo, un amico dei tempi dell’università e che non vedo da 15 anni almeno. Lo aspettiamo nella piazza centrale della città, baciati da un sole meravigliosamente caldo e il termometro sul contachilometri della bici segna 18° che non è affatto male per essere il 4 di gennaio. Arrivano Vincenzo e consorte, ci sediamo a bere un caffè e a rimirare la piazza, mentre da lontano si sente una voce scandire una litania: “è il muezin che invita alla preghiera”, dice. Io stento a crederci, ma lui continua “sì, sai, qui gli arabi vanno e vengono da sempre, adesso sono in una fase di ritorno”, mi dice con una consapevolezza storica che fa dell’oggi un mero incidente. E dopo il caffè, ci guida alla scoperta della piccola città sulla costa, ci infrattiamo per vicoli ricoperti di ceramiche decorate e soggette a una recentissima attività di riqualificazione. Mi mostra muri edificati da secoli e che, da secoli abbracciano famiglie che hanno parlato lingue differenti tra loro. entriamo in una surreale chiesa a base ellittica, ormai scoperchiata e poi in un teatrino minuscolo costruito nella prima metà dell”800. Attraversiamo piazze caratterizzate da una grazia architettonica unica, consegnata dagli architetti alla gloria dei secoli, il tutto rigorosamente deturpato dalla solita multipla rossa parcheggiata al centro del tutto, capace di rovinare qualsivoglia poesia.

Dopo la visita a Mazara e il pranzo in famiglia, ci lasciamo con la promessa di rivederci prima dei prossimi 15 anni e di pensare assieme a un pacchetto cicloenoturistico per valorizzare questo territorio al di fuori dell’alta stagione: siamo sicuri che i ciclosbevazzatori del nord Europa  non aspettino altra occasione per mollare la loro gelida terra e venirsi a scaldare da queste parti. Pedaliamo, ma la grigliata e tutto il vino ci rendono difficoltoso l’avanzare. Arriviamo a Campobello di Mazara, è l’imbrunire e ci mettiamo a cercare un albergo, un b&b, un campeggio o un luogo qualunque per sistemarci per la notte. Purtroppo gli abitanti ci dicono che siamo capitati nel paese sbagliato e che, in particolare d’inverno, non c’è niente nell’arco di 10 km.

Ma noi siamo stanchi, facciamo una capatina in una bottega di alimentari dove compriamo una busta di risotto ai funghi, un po’ di formaggio e qualcosa per la colazione e ci rimettiamo a pedalare. Troviamo un uliveto spettacolare al riparo da sguardi indiscreti dove piantiamo la tenda, leggiamo un po’, cuciniamo il nostro risotto liofilizzato e cadiamo in un sonno pesantissimo.

Il giorno dopo siamo in strada ancora prima del sorgere del sole: siamo indietro di un cannolo rispetto al giorno prima e dobbiamo rimediare al più presto. E infatti iniziamo una pedalata che sembra non finire mai verso Menfi e poi Sciacca dove ci fermiamo per la seconda colazione. Purtroppo da queste parti, di strade secondarie, non ce ne sono granché (o forse non siamo riusciti a individuarle noi) e ci dobbiamo accontentare della SS115 che, per lo meno, non è molto trafficata e ha un’ampia banchina sulla destra dove pedaliamo comodi comodi. Tra un viadotto e l’altro attraversiamo la valle del Belice e siamo costretti a rimanere lontani dai centri abitati. Per noi è una condizione nuova: in tutti i nostri viaggi precedenti non era mai successo di trovarci ad affrontare vie che snobbavano deliberatamente città, villaggi e paesi.

La pianura artificiale creata dai viadotti continui e il solito vento che ci spinge da dietro, mi stimola a effettuare riflessioni sulla ricettività alberghiera totalmente in letargo, a dispetto dei quasi 20° segnati sul mio ciclocomputer. Il calendario segna il 5 di gennaio e, pedalata dopo pedalata, mi ricordo degli anni trascorsi in Germania quando, durante le ferie natalizie, la scelta era tra starmene rintanato in casa al calduccio davanti al calorifero, oppure avventurarmi fuori a temperature sconsiderate per qualche passeggiata tra neve sporca e pozzanghere ghiacciate. E mi chiedo quante persone siano in quell’esatto momento davanti al calorifero e stiano guardando fuori dalla finestra aspettando il disgelo, mentre vorrebbero starsene fuori, all’aria aperta, pedalando con una temperatura di 20°, magari in una Sicilia che, però, non è pronta ad accogliere turisti a pedali. Peccato, mi dico, e in un attimo siamo quasi a Porto Empedocle, paese natale di Pirandello e di Camilleri che da lontano si preannuncia con delle gigantesche ciminiere. Facciamo finta di non vederle e ci concediamo un momento di pausa su una terrazza naturale a ridosso della Scala dei Turchi: la luce morbida invernale ci consente di tirare fuori qualche foto decente mentre intorno a noi una comitiva di camperisti della provincia di Varese occupa lo spazio disponibile per fotografarsi. “Ehi, anche io sono della provincia di Varese!” dico cercando di sortire un qualsivoglia entusiasmo e un senso di appartenenza comune. Un laconico “Ah, OK” è tutto quello che ottengo dai miei conterranei. Tra un cartello di ingresso alla città che ci vuole presentare il nostro punto di approdo (“Benvenuti a Porto Empedocle, città a vocazione turistica”) e la gigantesca centrale termoelettrica che impedisce l’accesso al mare, facciamo la conoscenza con un villaggio schiacciato tra le ciminiere dell’ENEL al mare e quelle del cementificio pochi chilometri più a monte. Scende la sera, e inizia a fare fresco. Troviamo un albergo e ci buttiamo sotto una corroborante doccia bollente. A seguire pizzeria e letto: all’indomani ci aspetta la Valle dei Templi, finalmente. La mattina ci svegliamo che è tutto bagnato: nella notte ha piovuto, ma adesso il cielo è terso e la temperatura è particolarmente clemente. Il termometro segna 10°, che per essere le 8;30 del mattino dell’Epifania, non è affatto male. Ci fermiamo a gonfiare le gomme e a bere il caffè in una stazione di servizio Agip. Un vecchietto ci guarda e non resiste “ma come fate ad andare in giro in bici con questo freddo?” ci chiede. Noi scoppiamo a ridere, ma lui è serissimo. Gli diciamo che ci scaldiamo pedalando, ma lui scuote la testa con disappunto. Per arrivare ad Agrigento occorre poco meno di un’ora. Basta passare sul gigantesco viadotto (il cementificio di Porto Empedocle dovrà pur servire a qualcosa, no?) e la città è lì davanti, con tutte le sue contrapposizioni che non oso giudicare. Dopo una discesa arriviamo finalmente all’ingresso del parco archeologico dove lasciamo le biciclette legate a un palo. L’ingresso è relativamente economico e il parco è molto ben tenuto. Ci sono le indicazioni, i bagni e tutto quanto, ma il mio sguardo proprio non riesce a staccarsi da quelle ca**o di ciminiere di Porto Empedocle in lontananza.

Dopo un paio d’ore decidiamo che, di rovine, ne abbiamo abbastanza. Riprendiamo le bici e saliamo verso la città. Vogliamo abbandonare la costa per andare alla scoperta delle città del Barocco nell’entroterra e, magari, concederci il lusso di una visita un po’ più prolungata nei vari centri, per questo decidiamo di giocare la carta bici+treno. Da Agrigento a Enna sono 100 km e il treno impiega 3 ore cambiando a Roccapalumba. Optiamo per qualcosa di più facile e ci accontentiamo di un Agrigento-Caltanissetta, 70 km diretti in un’ora e mezza a bordo di quello che, più che un treno, sembra un tram a gasolio ma che, per lo meno, fa il suo dovere e ci porta a destinazione.

L’arrivo a Caltanissetta è maledetto da un vento gelido che, però, ancora una volta ci sospinge da dietro. Il vento da queste parti deve essere una condizione abituale: Petraperzia è un villaggio pronto a testimoniarlo, poiché si sviluppa su un solo versante di una collina, dando un’immagine spettrale di se stesso. Il vento permette di macinare diversi km alla svelta, ma a meno di una soluzione creativa o di un bed & breakfast comparso all’ultimo momento, piantare la tenda durante la notte potrebbe essere problematico. La soluzione creativa non manca ad arrivare: poco prima del tramonto, notiamo un piccolo edificio al centro di un terreno arato, spingiamo le bici tra le zolle per capire di cosa si tratti e troviamo che la porta è aperta e all’interno troviamo quella che un tempo doveva essere una stalla, con tanto di mangiatoia e ancora la paglia per terra. Piantiamo alla svelta la tenda all’interno della piccola stalla, mentre fuori il vento diventa sempre più violento. Cuciniamo, mangiamo e ci mettiamo sull’uscio a guardare la campagna illuminata dalla luna e a bere del vino rosso che ci concilia subito il sonno. Di tutti i posti in cui abbiammo dormito durante questo viaggio, questo ricovero di fortuna è probabilmente quello che ci ha dato il maggiore senso di intimità e, forse complice anche il vino, un senso di armonia con il resto del creato.

Ci svegliamo presto e, senza fare colazione, ci mettiamo in viaggio mentre la campagna è già ricolma di operosi omini che stanno seminando chissà cosa. Pedaliamo con avidità fino al primo centro abitato per il nostro cappuccio&cornetto. Il primo centro abitato si chiama Piazza Armerina ed è il primo centro del Barocco che stavamo cercando. Prima di entrare in città, passiamo sotto il solito viadotto che ne deturpa la visione e, ormai quasi in centro, inciampiamo in Cyril, un francese di 24 anni che sta facendo il giro del mondo con la sua Brompton e il suo equipaggiamento ultralight che a noi non basterebbe neppure per una settimana al mare. Ha bucato e sta armeggiando con la ruota dietro. Non gli serve nulla, se non una buona dose di pazienza (smontare la ruota posteriore di una brompton può essere scoraggiante). Gli diamo appuntamento al bar in centro dove si presenta dopo una ventina di minuti mentre noi, al secondo caffè, leggiamo il giornale.

Poche parole, ci racconta che lui, più che pedalare, fa l’autostop. Dice che verrà presto in Turchia, ci scambiamo i rispettivi numeri di telefono ché non si sa mai, facciamo un giretto per la piazza centrale, ci salutiamo e proseguiamo verso est.

La strada per Caltagirone è una vera meraviglia fatta di morbidi saliscendi, con pochissimo traffico e, se non fosse per la spazzatura lasciata ai lati sinistro e destro della strada, sarebbe il sogno di ogni ciclista. Mentre pedalo, ripeto nella mia testa il nome Caltagirone, con la O sempre più aperta e con la g sempre più doppia. Per me, italiano del profondissimo nord, Caltagirone è sempre stato il nome di un luogo esotico e lontanissimo da cui lasciarsi affascinare, come una Samarcanda con la coppola e il sapore di arancia candita. Una volta arrivati a destinazione, restiamo esterrefatti dai dettagli di una città di porcellana colorata.

Per arrivare a Ragusa la strada indicata sulla cartina sembra complicata e le cartine sul cellulare ci svelano l’esistenza di una miriade di strade e stradine che, attraverso i campi, ci possono evitare di percorrere la statale. Decidiamo di affidarci al navigatore satellitare che abbiamo con noi, mentre noi ci limitiamo a pedalare. Attraversiamo campi coltivati e una foresta di querce da sughero. Per la strada, poco più di nessuno. Il sole inizia a scendere e noi non solo non sappiamo quanti km manchino a Ragusa ma non sappiamo neppure dove siamo. Un’automobilista ci dice che siamo a un’ora da Ragusa. Un’ora significa almeno 30 km e in quel momento il desiderio di spaccare il navigatore traditore è forte. Troviamo l’ agriturismo gestito da Marco, un tipo tanto gentile quanto strambo, uno di quelli che hanno fatto la scelta di mollare il lavoro in città per costruirsi una vita a dimensione più umana. Gli mancano diversi denti in bocca, ma sembra che la cosa non sia un problema. Mangiamo assieme un risotto di asparagi selvatici e beviamo il suo vino. Dopo qualche carrubba e un tè davanti al camino, finisce la giornata.

La colazione il giorno seguente è a base di supermarmellate e pane ignorante. Salutiamo il nostro anfitrione e ci mettiamo a pedalare. Dopo 5 km vediamo la Punto di Marco che all’improvviso ci taglia la strada e ci parcheggia innanzi. Scende di corsa dall’auto e ci mostra quello che ha tra le mani: due paia di calze che, nella fretta della partenza questa mattina, erano rimaste sotto il letto. Vorremmo abbracciarlo e baciarlo. Non tanto per il valore delle calze, quanto per il gesto di straordinaria umanità che ci ha dimostrato e, come se non bastasse, ci mette in mano anche delle carrube, noci e mandorle del suo giardino e una bottiglietta d’olio. Siamo commossi.

Ci salutiamo nuovamente e ormai Ragusa è lì, a pochi km e tutti in discesa. Arriviamo giusto in tempo per la seconda colazione che consumiamo in un baretto anonimo lungo la strada che taglia la città in due con una pendenza formidabile. Ci fermiamo a dare un’occhiata alla Cattedrale di S. Giovanni Battista e poi rotoliamo giù verso Ibla dove ci aspetta la vera meraviglia della città antica che ancora mantiene il fascino della straordinaria grandezza siciliana del ‘700.

Da Ragusa a Modica la strada è piacevole e scorre via in fretta tra gradevoli saliscendi. Arriviamo in città che non è ancora ora di pranzo e ci sediamo su una panchina dove trascorriamo un’oretta contemplando l’edificio davanti a noi. Aspettiamo Alessandro, un vecchio amico che ha colto l’occasione per incontrarci e mangiare un boccone assieme. Mentre aspettiamo, facciamo due passi e la bellezza attorno a noi è commovente. Non sono mai stato qui, eppure mi sembra di avere centinaia di ricordi legati a questo luogo. Per questo motivo decidiamo, anche se il sole è ancora alto in cielo, che per oggi vale la pena andare a cercare un b&b dove passare la notte e goderci questo luogo incantato.

Dopo un pranzo luculliano con Alessandro e Ingrid, ci facciamo una lunga passeggiata tra viuzze e calli, dove capisco immediatamente il motivo di tanta seduzione: l’architettura delle case attorno a noi è la stessa, preservata e immutata da qualche secolo a questa parte, non c’è neppure un’antenna parabolica a rovinare la grazia armonica della città ma, soprattutto, non  c’è la solita arrogante, orribileMultipla rossa parcheggiata a sempre per 5 minuti a distruggere qualsivoglia forma di composizione artistica. Arrivati a Modica, per noi, è un po’ come sapere che il viaggio sta per finire. Prima di ripartire, facciamo incetta di barrette di cioccolato e ritorniamo finalmente sulla costa, non prima di aver compiuto una pausa a Noto.

Appena tornati sul livello del mare, notiamo una vera e propria invasione di ciclisti in tutina in lycra che ci sorpassano da ogni parte e, alle volte, ci salutano. Era molto tempo che non  vedevamo una pianura e la monotonia del paesaggio ci consente di spingere forte sui pedali senza rimorsi. Davanti a noi c’è Siracusa che ci aspetta, mentre a destra e sinistra, mancano stranamente all’appello le vigne: siamo ad Avola, ma non  c’è traccia dei campi del famosissimo Nero d’Avola. Misteri della vitivinicoltura.

Arriviamo a Siracusa poco prima del tramonto. Fa freddino e la piazza della cattedrale è illuminata da una luce gialla quasi fluorescente. Ci rechiamo al b&b dove abbiamo preso una camera con bagno per pochi euri. Il proprietario che ci accoglie non è esattamente un mostro di simpatia, ma tant’è. All’indomani lasciamo le biciclette ricoverate nel sottoscala del palazzo mentre noi ce ne andiamo in giro a piedi per Ortigia alla scoperta degli angoli più nascosti. Stiamo camminando su un’isola che, dalle Odi di Pindaro in poi, potrebbe raccontare millenni di storie.

Attraversato il mercato, ci ritroviamo di fronte alla bottega di un caseificio dove c’è una coda lunghissima di persone in attesa di ordinare il proprio panino. Non è il solito paninaro. Arrivati al nostro turno capiamo il motivo dell’attesa: il proprietario della bottega, oltre a preparare dei panini con combinazione di sapori studiati in modo quasi scientifico (il piccante va messo sul bordo del panino perché così, leccandosi gli angoli della bocca si interpreta al meglio il sapore del peperoncino senza esserne sopraffatti), tiene banco con divagazioni filosofico culinarie che partono da Dio e arrivano fino al rapporto tra uomo e donna nel terzo millennio.

Eccola qui, è la cultura millenaria di un luogo, riassunta da un paninaro che è figlio di Siculi, Fenici, Greci, Romani, Arabi, Normannni e che prepara un bigino della cultura gastronomica locale per pochi euro.

Il viaggio in bici per noi è finito. All’indomani decidiamo di non pedalare lungo la piattissima e trafficatissima statale che porta a Catania. Prendiamo il treno e arriviamo alle pendici dell’Etna. Qui, dopo aver gironzolato un po’ per il centro città, incontriamo i ragazzi di #Salvaiciclisti Catania con cui trascorriamo una serata incantevole parlando di grandi principi e di piccoli problemi di natura locale. Andrea, Viola, Amedeo, Attilio e Adolfo ci fanno sentire benvenuti e ci cullano in giro per la città.

Catania

All’indomani Attilio ci preleva dal b&b e ci accompagna a fare una pedalata: è la domenica del lungomare liberato e le strade sono invase da persone in bicicletta, a piedi, coi pattini e tanta gioia che si spostano su e giù godendo di uno spazio negato per troppo tempo. Ma il tempo è scaduto. Il viaggio è finito. Pedaliamo gli ultimi km verso l’aeroporto dove salutiamo Attilio, mettiamo le nostre bici dentro gli scatoloni e ci lasciamo alle spalle questa isola incredibile dove, lo sappiamo, dobbiamo tornare al più presto per recuperare quello che non  abbiamo visto questa volta.

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Sicilia in bicicletta, arte e cultura
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Commenti

  1. Avatar corrado ha detto:

    Viaggio bellissimo, complimenti.
    Io ho completato da poco il mio quarto giro in questa terra meravigliosa … e non è finita. Purtroppo la Sicilia, come peraltro buona parte del resto d’Italia, è anche questo: http://prendoillargo.blogspot.it/2016/07/il-bel-paese.html; è un punto di vista “scomodo” lo so, ogni tanto però varrebbe la pena parlarne. Ciao.

  2. Avatar Lupolibero ha detto:

    Questo è quello che intendo per cicloViaggio. Molti diari sono frutto di imprese sportive niente male, ma risultano comunque sterili, aridi dal punto di vista umano e del rapporto col paesaggio. Manca il sale dell’avventura, dato dall’accampamento selvaggio. Manca quel certo non so che di “zingaraggine controllata” che rende l’esperienza interessante. Vi faccio i miei complimenti sinceri. E’ dai viaggi come il Vostro che si impara. E leggerVi è stato un piacere.

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