Nota della redazione: in occasione dell’8 marzo, abbiamo chiesto a Linda e Silvia, Cicliste per caso, di raccontarci il loro viaggio in bici in Italia, sulle tracce di Alfonsina Strada. Il loro viaggio è stato anche un’occasione per parlare di donne, emancipazioni, e pari opportunità.
Quasi un anno fa, io e Silvia, abbiamo deciso di partire in bicicletta per un viaggio che ci avrebbe portate da Milano a Catania.
Eravamo reduci da un’avventura di qualche mese prima in Patagonia e ci eravamo date un nome, Cicliste per caso, che ben rappresentava la nostra filosofia di viaggio.
Il nostro secondo viaggio voleva però essere non solo una bella pedalata che attraversasse tutta l’Italia, ma anche un’occasione per ripercorrere le gesta della mitica Alfonsina Strada – l’unica donna che nel 1924 aveva corso il giro d’Italia con gli uomini – e per parlare di donne, emancipazioni e pari opportunità.
Alfonsina era un esempio che ci aveva affascinate da subito. Una donna con una grande passione che in un’epoca in cui le convenzioni sociali volevano la donna moglie, madre e casalinga, aveva avuto la spudoratezza di montare una bici da uomo e andarsene in giro a sfidare tutti, intraprendendo un’avventura di pioniera dello sport e di paladina dei diritti delle donne.
Durante il nostro viaggio abbiamo scritto molte storie di donne; questa è quella che parla di Alfonsina, che racconta di come ci ha ispirato, di come ancora oggi sia capace di accendere dei sogni e del perché c’è ancora bisogno di grandi donne che con il loro esempio indichino la strada che ancora c’è da percorrere. Perché ogni donna possa inseguire la sua passione, possa essere unica e speciale senza che nessuno la consideri una matta.
Quella matta di Alfonsina

Se nel 1924 ci fosse stato un concorso di Miss Italia che anziché misurare seno-vita-fianchi avesse misurato la forza, la caparbietà e il coraggio, Alfonsina Strada avrebbe indiscutibilmente indossato la fascia e il diadema di vincitrice.
Invece Alfonsina, Fonsina per tutti, non aveva vinto un bel niente, era una donna sbagliata, che non si era mai preoccupata di prendere le misure prima di fare qualcosa, una matta come dicevano tutti. Ma lei si sentiva una vincitrice comunque, anche se le urlavano puttana mentre passava con la sua bici e i pantaloncini corti. Lei era una vincitrice perché dopo mille tentennamenti avevano deciso di farla partecipare al Giro d’Italia. Con gli uomini. La matta.
Del resto come poteva non sentirsi una vincitrice lei che era cresciuta a Fossamarcia, che aveva nove fratelli, che suo padre faceva il bracciante ma doveva andare in giro a chiedere l’elemosina, che sua madre faceva la sarta ed era sempre incinta…
Ora si trattava di arrivare alla fine del Giro e dimostrare a tutti di che pasta era fatta, la matta.
Da quando aveva dieci anni e suo padre aveva portato a casa la prima bici da uomo, lei che non aveva mai avuto bambole né sogni, aveva cominciato a immaginarsi un giorno su un podio con medaglie scintillanti e gli applausi di tutti. Ma prima delle medaglie e degli applausi c’era la semplice voglia di andare, di pedalare, di correre come il vento.
«Lascia giù quella bici e vai a Messa!».
«Lascia giù quella bici e aiutami a rammendare!».
A rammendare poi aveva imparato davvero, era anche considerata una brava ricamatrice, ma quell’arte le era servita soprattutto per ricucire con estrema perizia le sue camere d’aria bucate. E anche quando da vecchia, ormai non più corridora, aveva aperto a Milano un laboratorio per riparare le biciclette, la sua specialità era insegnare ai ragazzi come usare ago e filo.
Noi donne in bici, oggi
Pensiamo alla Fonsina, oggi, io e Silvia, mentre pedaliamo nelle campagne vicine a dove è nata, a dove per la prima volta ha trovato l’equilibrio sui pedali, lei bambina su una bici gigantesca da uomo. Alle sue gambe potenti che l’hanno portata fino alla fine del Giro, massacrata, piena di tagli e cicatrici. Ai suoi occhi con la congiuntivite che si arrossavano per la polvere e la fatica.
Anche a noi, con le nostre bici coi cambi e le strade asfaltate, ci hanno detto che siamo delle matte. Certo in tono forse più benevolo e canzonatorio, ma ci è sembrato di sentire una strana eco, come se in fondo le cose non fossero poi granché cambiate.
Questo nostro giro d’Italia è per Alfonsina. Per l’aria fresca che l’ha colpita in faccia la prima volta che ha spinto sui pedali e non si è fermata più, per tutte le volte che non è andata a Messa, per ogni volta che ha stretto i denti, quando la insultavano, ed è andata avanti, perché ha finito il suo Giro e sessanta uomini hanno mollato, per quella fascia e diadema che avrebbe meritato come Miss Italia 1924.
Che poi un diadema Alfonsina ce l’aveva davvero. Glielo aveva regalato uno zar, negli anni in cui aveva girato l’Europa e aveva avuto successo esibendosi in spettacoli di acrobazie con la sua bici. Le vicine raccontavano che se lo metteva una volta all’anno. Il giovedì grasso. Andava in giro pavoneggiandosi e raccontando storie assurde, ogni volta diverse. La matta.
Testo di Linda Ronzoni / Foto di Silvia Gottardi
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