L’ok del Parlamento europeo all’addio alle automobili ad alimentazione fossile dal 2035 è una buona notizia, al pari della bocciatura dell’emendamento dei conservatori che avrebbe invece annacquato il provvedimento e confuso il mercato, danneggiando in fin dei conti sia l’ambiente e il clima, dato che non c’è più tempo da perdere, sia l’economia, visto che ormai il punto non è ‘se’ ma ‘quando’, per cui una chiara direzione e tempistica di marcia è nell’interesse anche di imprese e consumatori.
Però attenzione: l’iter non è ancora concluso e nelle successive trattative con il Consiglio europeo, dove siedono i rappresentanti dei governi nazionali, per arrivare al provvedimento finale, c’è il rischio di nuovi compromessi al ribasso.
Il fattore tempo è centrale in questa partita: 13 anni per il phase-out (peraltro solo della vendita, non della circolazione, che quindi continuerà ben oltre) di auto a benzina, diesel e ibride sono troppi a fronte della gravità della crisi climatica che sta drammaticamente accelerando, così come nel contempo sono senza dubbio impegnativi per la riconversione di un intero settore industriale e di tutto il suo indotto consolidato da decenni.
Ma la soluzione non è certo continuare a rinviare e diluire il cambiamento, costruendo l’alibi per poi dire ogni volta che il tempo è troppo poco, proprio perché in realtà senza vincoli precisi fino a quel momento non si è fatto sul serio fino in fondo.
Se i governi e gli operatori economici avessero investito di più negli anni su energie rinnovabili e transizione all’elettrico nel settore dei trasporti, anziché spesso cercare di ostacolare e ritardare il cambio di paradigma, oggi saremmo arrivati più preparati alla sfida.
Con questi target, forse cominceremo finalmente a farlo per davvero.
Anche per gestire al meglio l’impatto, sia sociale (la tutela del lavoro in questo settore passa per nuovi investimenti e lo sviluppo di nuove filiere produttive: non serve a nulla cercare solo di conservare l’esistente di fronte a un cambiamento epocale), sia economico (la Cina è più avanti, è vero: sarà forse che si è mossa prima e più velocemente nella direzione del futuro? E allora vogliamo accelerare per recuperare il ritardo con regole che stimolano il riorientamento del mercato, o continuare a procrastinare peggiorando sempre più la nostra competitività, italiana ed europea?).
Nello stesso tempo, non dimentichiamo che, nel campo della mobilità, le emissioni zero sono una parte fondamentale della strategia, ma sono altrettanto decisivi la riduzione del tasso di motorizzazione privata (l’Italia ha quello pressoché più alto d’Europa) e lo “shift modale”, ossia l’aumento degli spostamenti con trasporti pubblici, in bicicletta, a piedi, usando i servizi di sharing, e la corrispondente riduzione di quelli in auto e moto.
L’obiettivo, allora, non è solo avere macchine non inquinanti né climalteranti, ma anche proprio avere meno macchine, e meno spostamenti in auto.
Esattamente nella stessa piramide rovesciata e con la medesima strategia di transizione ecologica che perseguiamo per gli altri settori primari coinvolti: non sprecare energia e ridurre i consumi energetici, prim’ancora che ricavarla da fonti rinnovabili; produrre meno rifiuti, prim’ancora di riciclarli e differenziarli; e così via.
In sintesi, dunque: decarbonizzazione e demotorizzazione. Come d’altra parte afferma con coraggio e chiarezza anche il recente rapporto “Verso una mobilità locale sostenibile” voluto dal Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili Enrico Giovannini.
Questo vale soprattutto nelle città, dove le esternalità negative di una mobilità incentrata dagli anni ’50 sul mezzo privato non sono solo le emissioni climalteranti e inquinanti, ma, con tutta evidenza, anche la congestione, l’incidentalità e violenza stradale, l’occupazione veicolare dello spazio pubblico a scapito delle persone e delle altre funzioni sociali ed economiche delle strade e piazze urbane, il consumo di suolo con l’asfalto di strade e parcheggi.
L’intervento pubblico, anche perché attinge a risorse della fiscalità generale, va orientato con decisione verso quegli obiettivi di primario interesse pubblico, adottando scelte politiche e amministrative coerenti. Da questo punto di vista, il fondo istituito dallo Stato italiano per la transizione ecologica dell’automotive dovrebbe essere destinato molto più all’investimento strutturale nella riconversione industriale, piuttosto che agli incentivi una tantum e “1:1” ad acquistare nuovi veicoli privati. In questo senso, la riconversione produttiva potrebbe avvenire tra l’altro verso la costruzione e manutenzione di autobus, tram e treni, considerato il potenziamento delle reti e dei servizi di trasporto pubblico su gomma e su ferro, mentre gli eco-incentivi, per essere davvero tali, andrebbero tolti alle auto a motore termico e, inoltre, riorientati verso schemi di rottamazione “2:1” e/o con erogazione di buoni mobilità ai cittadini, per favorire l’uso di mezzi pubblici e servizi di sharing mobility, tenuti insieme dall’approccio MaaS.
Da ultimo, la giornata di votazioni del Parlamento europeo è stata invece molto preoccupante per la mancata approvazione di un altro tassello fondamentale del piano “Fit for 55” proposto dalla Commissione europea, cioè la riforma dei cosiddetti “ETS”. Per il futuro dell’umanità più che del pianeta (ché siamo noi che rischiamo l’estinzione, non la terra), c’è da augurarsi che il rinvio non porti a passi indietro sui nuovi più elevati obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti, sull’abolizione, peraltro progressiva, dei permessi gratuiti “per inquinare”, e sull’inclusione nel sistema anche del trasporto su strada (privato e commerciale) e dei riscaldamenti degli edifici.
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