Mentre aspetto gli ultimi 7 km della tappa di oggi con una certa trepidazione (l’arrivo a Campo Imperatore: hai presente Pantani nel 1999?), faccio una riflessione probabilmente ingenua e romantica sull’arrivo di ieri a Napoli.
Io alla vittoria di De Marchi e Clarke ci credevo. Di più, la volevo proprio.
La fuga è epica, evoca coraggio, follia e sacrificio. Si tira a turno, ci si dà il cambio. Si soffre il vento contro, le gambe che cedono, la mancanza dei compagni di squadra. In fuga ti fidi degli “sconosciuti” che sono scattati con te. Aspetti i rifornimenti e se finisci l’acqua e l’ammiraglia è lontana, è il tuo avversario a dissetarti. In fuga cerchi soprattutto di battere i tuoi limiti, ma ci pensi eccome alla vittoria. Probabilmente tutto il tempo, per tutti quei lunghissimi chilometri.
E il pubblico? Il pubblico sostiene la fuga. La acclama, la sospinge, la desidera e la applaude con entusiasmo. Dai, ce la fai, manca poco. Non arrenderti. Ce la fai.
Invece no. Il gruppo spietato, affamato di punti ha distrutto il sogno romantico del pubblico. Il mio sogno romantico. A soli 200 metri dall’arrivo ha spazzato via le velleità dei due cavalieri con uno sprint che ha visto vincere Pedersen e piazzarsi secondo Milan (la fredda cronaca).
Ci son stati degli errori da parte di Clarke e De Marchi? Può darsi. Ma a me l’analisi tecnica non interessa, penso alle emozioni ai sentimenti, ai moti del cuore, oggi. La gioia, di vederli darsi cambi perfetti fin (quasi) alla fine. L’ansia, quando a 200 metri dal traguardo hanno cominciato a guardarsi indietro. Il nodo alla gola, durante le interviste. Ebbene sì, mi si è spezzato il cuore a sentire Alessandro De Marchi rimproverarsi per non aver dato l’ultimo cambio. Mi hanno decisamente smosso le parole di Simon Clarke, che non solo non rimprovera nulla a De Marchi, anzi, lo ringrazia perché altrimenti non sarebbe arrivato fin lì.
Volevano vincere, sono stati beffati.
Volevamo vederli vincere, siamo stati beffati anche noi.