Da Rotterdam a Parigi in bici, epilogo

Tratto dalla raccolta di viaggi: Abbondanti dozzinali

Il titolo può sembrare strano, ed è volutamente grottesco, nasce da un gioco di amici che auto-ironizzava sulla nostra scarsa organizzazione dei primi viaggi, sulla scarsa preparazione fisica, su tutto-ciò-che-non-è-romanzato.
E questo è anche un po’ il taglio della narrazione dei miei diari: grottesco, surreale, ironico, con un occhio disincantato sempre teso al lato antropologico dei posti visitati…

rotterdam-parigi

Da Rotterdam a Parigi in Bicicletta – Prologo
Tappa 1 da Delft a Hellevoetsluis (Olanda) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 2 da Hellevoetsluis a Westenschouwen (Olanda) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 3 da Westenschouwen a Ijzendijke (Olanda) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 4 da Ijzendijke a Gent (Belgio) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 5 da Gent a Kluisbergen (Belgio) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 6: Kluisbergen, Lille e Don (Francia) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 7: da Don ad Albert (Francia) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 8: Da Albert a Parigi (Francia) – Rotterdam Parigi in Bici
Tappa 9: Parigi: Rotterdam Parigi in bici

9/5/12 PARIGI – GENEVE – LOUSANNE – MILANO – ROMA

L’epopea del ritorno
Mi alzo e sveglio la mattina presto, anche se Parigi si muove da un po’. Umido e grigio anche oggi. Con un po’ di malinconia carico la bici e pedalo da Oberkampf a Gare de Lyon. Qui mi attendono la colazione e l’attesa. Un gruppo di indiani osserva fisso il tabellone delle partenze insieme a me. Il binario del treno per Ginevra ancora non compare. Poi, l’avviso di un ritardo di 15 minuti. Quando l’applauso degli indiani sancisce l’arrivo del treno per Ginevra, è passata un’ora e mezza.

Non salirà tutta questa ciurma sul mio treno“, penso tra me e me.
OVVIAMENTE la mia bici carica, condotta a mano dal sottoscritto, è costretta a farsi largo tra la loro ciurma.
OVVIAMENTE il senso di fila e di priorità non è tra le loro preoccupazioni nell’atto di salire in carrozza. Comincio quindi a spintonare grasse mamme col cerchietto rosso in fronte e i loro bambini, incurante dei loro “bike at last!” – “I waited for a long time!”, rispondo e imbarco.
OVVIAMENTE non guardo subito il numero di carrozza assegnata: mi allontano in fretta e furia dall’ultima carrozza, che è monopolizzata dagli indiani, fino a comprendere l’infausto conteggio delle carrozze del treno:
OVVIAMENTE è la loro. Ancora una volta intruso in una microcomunità urlante e allegra, mi siedo al mio posto: io volevo solo dormire un po’. Ma circa cinquanta indù di tutte le età e di tutte le varietà possibili di voce me lo impediscono, con battute e racconti e ironie che non posso capire.

Tra Parigi e la Bourgogne e le Alpi Svizzere si scatena Hollywood Party.
Mi metto gli auricolari, unico residuo del cellulare rubato, per arginare la loro vitale irruenza, ma l’effetto è inconsistente. Il loro idioma, mista a un inglese a stento comprensibile e cadenzato, mi raggiunge anche attraverso la gomma.

Dietro di me, due coppiette si appoggiano l’una sull’altro; le ragazze hanno infradito leggere e poggiano i piedi nudi sui sedili, i ragazzi portano inguardabili e coloratissime scarpe laccate di vernice. Ai sedili della fila davanti alla mia, si forma un assembramento attorno a quella che deve essere una guida o un professore: c’è una breve lezione in inglese, poi alcuni dei viaggiatori del gruppo sono chiamati a intervenire e a raccontare qualcosa. Risate di intensità variabile a ogni intervento. Rinuncio definitivamente al sonno. Suoni gutturali, voci aspirate e strozzate, risate acute e frenetiche.

Nel frattempo il ritardo si accumula e la mia coincidenza da Ginevra per Milano scivola via. Atterrito all’idea di rimanere bloccato sul costoso suolo svizzero, cerco i capotreno, che avvisano in stazione a Ginevra del mio problema. In perfetto inglese, dall’alto dei loro sorrisi rassicuranti, mi dicono che con lo stesso biglietto posso prendere da Ginevra un treno per Losanna, e da lì riacchiappare quello per Milano; mi indicano inoltre i binari dei cambi da effettuare, per accelerare le operazioni di trasferimento.

Pochi minuti prima di Ginevra, mentre tiro fuori la bici dal vagone apposito, suscito la curiosità di uno dei signori indiani, che mi fa delle domande in inglese sul mio viaggio, per poi girarsi e fare da interprete a un paio di generazioni di suoi connazionali – la nonna fa facce di approvazione e “uuh” di sorpresa alle sue parole.
Quando scendo a Ginevra, scopro che il mio è diventato un caso nazionale svizzero: manciate di capotreno in casacca fosforescente sanno già del ritardo del mio treno, della coincidenza, e mi stanno aspettando per far partire l’altro treno.

vous êtes le garçon avec la velo? depechez-vous!
Col favore degli operatori ferroviari e col tifo degli indiani raggiungo Losanna: nemmeno Forrest Gump ha mai avuto tanto sostegno.
L’ossessione di puntualità elvetica rimedia così in maniera rocambolesca alle pecche ferroviarie francesi; anche a Losanna, il cortese controllore che lascia trasparire un alone di omosessualità dalle movenze e da un orecchino un po’ troppo vistoso previene ogni mia spiegazione:

“Je suis le garçon avec la velo”
“Je sais tout. S’il vous plait, mettez la velo ici”
Io e il mio sudore raggiungiamo Milano senza altri intoppi.
La strada ferrata si snoda attraverso i monti, e le curve inclinano la visuale sul lago. Sprazzi di neve in cima, e cielo azzurro. Finalmente dormo un po’.
Di nuovo in Italia, si costeggia il lago di Como e i suoi stupendi isolotti. Prima città di casa, la D per antonomasia: Domodossola.

Milano – come l’altra volta, Milano esige sempre un tributo da me: un tributo di lacrime e sangue. In questo caso, il sangue sono gli ottanta euro di sacca-bici obbligatori per il Frecciarossa che in sole tre ore mi porterebbe a Roma (prendere i regionale significherebbe dormire 3 ore a Ancona o a Pescara dalle 3 alle 6 di mattina, e da lì prendere la coincidenza per Roma che mi lascerebbe nell’Urbe in tarda mattinata, e stavolta non me la sento). Resta soltanto da smontare la bici e inserirla nella sacca.
Di ritorno dal gentile (ma dopo 80€ so’ tutti gentili) ciclista, scelgo come altare sacrificale il porticato della Stazione Centrale: capovolgo il mio agnello d’acciaio, manubrio a terra, e inizio il mio ingrato lavoro. ruote, sellino, pedali, portapacchi e manubrio. Al termine dell’operazione, uno scheletro metallico implorava pietà in una sacca nera.
La scena dell’acquisto biglietti&cibo e del raggiungimento dei binari ricorda quella di un assassino maldestro che si trascina dietro il suo cadaverone, senza preoccuparsi di dare troppo nell’occhio.

Il sole affoga in un cielo milanese inaspettatamente sereno, mentre salgo sul treno per Roma.
Sporco, stanco e con le manu piene di grasso di catena, condivido lo scompartimento con una coppia romana e una ragazza dall’italiano stentato. Tra i loro Apple, Kindle, I-phone, I-pad e I-pod, io che ho perso per la strada telefono, salute, chili e ginocchia, con la mia I-penna annoto queste righe sulla mia I-genda. Il touchscreen è appiccicoso e unto.

Solo le luci al neon di Stazione Termini, gli addetti alla pulizia delle carrozze e l’orologio che batte l’una di notte sono testimoni dei miei resti nell’atto di rimontare una bici in assetto da viaggio.
E poi tornare a casa.

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