Ciclisti urbani si diventa
Strade piene d’insidie, attraversamenti poco visibili, traffico motorizzato che satura gli spazi: pedalare in ambito urbano rappresenta una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Siamo nati per camminare ma l’equilibrio in bicicletta, che spesso si acquisisce da piccoli, lo si conquista sul campo: cadendo e rialzandosi, sbucciandosi le ginocchia per non aver fatto i conti con la forza di gravità. La voglia di esplorare nuove possibilità vince le paure e così si pedala verso nuovi orizzonti di mobilità, fendendo l’aria su due ruote che sibilano sull’asfalto.
Le cronache locali sono piene di notizie relative a incidenti in cui sono coinvolti ciclisti, tamponati o investiti da conducenti di mezzi a motore. Quando ci scappa il morto – e purtroppo capita abbastanza di frequente – il tema diventa, per poche ore, un caso nazionale. Puntuale si riapre l’eterno dibattito sull’applicazione di misure draconiane solo nei confronti di chi guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe. Il tutto senza mai mettere minimamente in discussione il fatto che buona parte delle infrastrutture sono state costruite come “autostrade cittadine”, ad uso e consumo di chi spinge impunito sull’acceleratore e chi pedala – in mancanza di politiche serie di messa in sicurezza dei percorsi ciclabili all’interno del tessuto urbano – spesso è costretto a farlo a proprio rischio e pericolo. Al momento l’unica arma a disposizione dei ciclisti urbani è quella di aumentare di numero: una massiccia presenza di pedalatori sulla carreggiata “costringe” chi guida a prestare maggior attenzione.
Per come sono state progettate le strade e la viabilità all’interno della maggior parte delle città italiane, salvo rare eccezioni, la vita di chi pedala è appesa a un filo che può essere reciso a una rotonda che non consente di essere attraversata in sicurezza; a un incrocio a raso senza un’adeguata segnaletica orizzontale e verticale; a buche che vengono riparate peggio di come sono state fatte e alla prima forte pioggia si trasformano in pozzanghere dove annegano i buoni propositi elettorali del politico di turno.
Vincere la paura, imparare a pedalare nel traffico, capire quando è possibile aggirare un ostacolo in sicurezza e quando invece è meglio mettere il piede in terra e fermarsi: tutte queste cose un ciclista urbano le sa o, meglio, le apprende giorno per giorno a proprie spese, dal momento che la sua presenza sulla carreggiata è percepita da chi è al volante come un’anomalia o addirittura un’intrusione. Il nodo rimane sempre quello: la velocità. Abbassando il limite dei mezzi a motore da 50 a 30 chilometri orari sulle strade urbane, è stato dimostrato che aumenterebbe la sicurezza di tutti gli utenti della strada con un netto decremento dell’incidentalità e dei morti.
Il cambiamento è a pochi colpi di pedale, basta salire in sella e andarselo a conquistare.
Perché ciclisti urbani si diventa.
Possiamo far mettere tutte le regole e le restrizioni che vogliamo, ma sarebbe sufficiente il rispetto del codice della strada da parte di tutti.
La prima strategia per salvaguardare i cliclsti (e i pedoni e tutta l’utenza stradale “debole”) è perseguire sistematicamente e più duramente chi infrange il codice, multare da remoto (tutor, autovelox, ztl, …) è condizione necessaria ma anni luce lontana dall’essere sufficiente. Serve un controllo in strada che non si limiti alla sanzione: se multi un’auto in doppia fila, quella resta in doppia fila diminuendo le possibilità di sopravvivenza dei ciclisti che attorno a questa dovranno passare.
E serve, secondo me, il “pugno duro” anche verso i ciclisti, perché andare di notte contromano senza uno straccio di luce e di casco con i freni allentati è cercarsela. Che le bici che vanno in strada siano quindi adeguatamente visibili, dotati dei dispositivi previsti dal CDS e che questo sia fatto rispettare.
Perché è inutile chiedere il “nuovo” quando il vecchio è come se non esistesse.
Già, le regole. Ma le regole sono pensate esclusivamente per il traffico motorizzato, pertanto concordo che senza luci di notte non si deve andare, ma il contromano non mi va giù proprio per nulla, a Parigi ê normale, a Zurigo pure, non parliamo della Germania e men che meno di Olanda e Danimarca. Noi siamo indietrissimo, ci meritiamo un (ex) ministro Lupi