Una delle questioni più dibattute nelle comunità di ciclisti concerne il tema della sicurezza. La bicicletta è un veicolo intrinsecamente sicuro se preso a sé stante, ma se inserita in un contesto urbano, caratterizzato da intensi flussi di veicoli veloci e pesanti, diventa il proverbiale ‘vaso di coccio tra i vasi di ferro’. Questo comporta che, a fronte di indiscutibili benefici per il singolo e per la collettività, permane una componente di rischio legato all’uso di tale veicolo.
L’uso della bicicletta è in linea di massima un bene poiché ha tutta una serie di ricadute positive in termini psicologici e sanitari, ivi compresi l’aumento dell’aspettativa di vita (in termini di mesi ed anni) ed un miglioramento complessivo della qualità della vita stessa. L’alternativa è molto spesso il mezzo privato, legato all’aumento delle malattie connesse alla sedentarietà, all’inquinamento e ad una riduzione complessiva dell’aspettativa di vita, oltre all’incidentalità stessa propria di tali veicoli. La necessità diventa quindi quantificare il bilancio complessivo, includendo l’incidentalità ciclistica in un quadro più ampio.
Ciò pone immediatamente una questione: se l’uso della bici è intrinsecamente ‘buono’, ed è giusto promuovere tale utilizzo, l’aumento del numero dei ciclisti comporterà un conseguente aumento dell’incidentalità. Un dato non strutturato può, in tal senso, venir facilmente strumentalizzato ed usato da portatori di interessi altri (nello specifico quelli legati al mercato dei veicoli a motore) per contrastare il fenomeno, positivo, dell’aumento dell’utenza ciclistica. Diventa perciò necessario contestualizzare le cifre astratte, al fine di comprendere se il bene che si ottiene sia superiore (o meno) al male prodotto.
Un possibile approccio consiste nel quantificare le ore di vita guadagnate o perse in base alla scelta della modalità di spostamento, includendo nel calcolo la qualità di queste ore di vita (un’ora di vita passata in ospedale o con una malattia cronica non è comparabile con un’ora di vita vissuta in buona salute a svolgere attività fisica). Quello che emerge da tale analisi è che le ore di vita perse, collettivamente, a causa dell’incidentalità ciclistica sono inferiori a quelle guadagnate, sempre collettivamente, grazie ad un uso continuativo della bicicletta.
Ciò significa che un modesto aumento dell’incidentalità deve essere messo in conto per pervenire ad un bene superiore. Può sembrare un discorso cinico (accettare le disgrazie di pochi per il benessere di molti) ma è l’unica maniera pragmatica per venire a capo di una materia eticamente complessa. Oltre a ciò, altre cifre ed altre considerazioni vengono in aiuto alle politiche che intendono promuovere l’uso della bicicletta.
Un diverso approccio quantitativo alla materia consente di valutare in che modo l’aumento dell’incidentalità sia correlato alla crescita del numero dei ciclisti. Il dato relativo al rischio viene ‘normalizzato’ mettendolo in relazione ai chilometri percorsi. Quello che emerge da tale analisi è che, al crescere del numero dei ciclisti sulle strade, il numero dei chilometri percorsi aumenta più rapidamente dell’incidentalità.
Ciò significa che se a spostarsi in bici sono pochi individui, ognuno di essi avrà un rischio di incidenti superiore rispetto ad una situazione in cui l’uso della bicicletta è diffuso a livello collettivo. A maggior ragione le politiche che favoriscono la crescita dell’utilizzo della bicicletta sono vantaggiose, stavolta non solo per la collettività ma direttamente per il singolo individuo.
L’ultima considerazione, in parte già espressa, è che gli spostamenti in bici sostituiscono progressivamente quelli effettuati con altri veicoli, che hanno una loro propria pericolosità ed una relativa incidentalità. L’aumento dell’incidentalità connessa agli spostamenti in bici va quindi considerato in relazione ai rischi connessi al totale degli spostamenti, ivi inclusa l’incidentalità ‘passiva’ causata dai conducenti di veicoli a motore ad altri utenti (tipicamente l’investimento di pedoni).
Quello che si osserva è che, al crescere dell’utenza ciclistica, il numero di incidenti complessivo relativo agli spostamenti con tutte le tipologie di veicoli viene a ridursi, anche se il dato separato per singola categoria di utenti (i ciclisti), può aumentare. Tali informazioni possono essere facilmente male interpretate (per non dire strumentalizzate) se si perde la visione d’assieme e si considera la riduzione dell’incidentalità del traffico veicolare indipendente dall’aumento dell’utenza ciclistica.
Da ultimo, le esperienze dei paesi a ‘ciclabilità evoluta’ dimostrano che all’aumentare del numero dei ciclisti sulle strade la sicurezza dei singoli spostamenti progressivamente aumenta, semplicemente perché il resto del traffico si abitua alla loro presenza. Questo non comporta, nell’immediato, una riduzione del numero di incidenti, comporta però, come già detto, una progressiva riduzione del numero di incidenti per singolo utente e per chilometro percorso.
Ciò accade perché su numeri estremamente piccoli il traffico motorizzato non ha modo di acquisire una sufficiente confidenza nel relazionarsi con le esigenze dell’utenza ciclista, e si attuano manovre imprudenti, nel complesso pericolose. Al crescere della percentuale di popolazione che fa uso della bicicletta la maggior parte dei conducenti di veicoli a motore finisce con l’avere un’esperienza diretta delle problematiche connesse all’uso della bici, e mette spontaneamente in atto stili di guida più sicuri.
In base a quanto evidenziato sin qui, l’uso della bici va promosso ‘sic et simpliciter’, e tutte quelle situazioni in cui si è visto che un intervento normativo ha portato alla riduzione di tale utilizzo vanno evitate. A tale riguardo, una delle “trappole” più comuni riguarda l’imposizione dell’obbligo del casco. Nei paesi dove si è seguita questa via normativa, ciò ha comportato una riduzione dell’utilizzo della bicicletta, con conseguente aumento dell’incidentalità per singolo utente e per chilometro percorso.
Questo non significa che il casco non serva a nulla o non possa essere utile in determinate situazioni (molte meno di quanto si pensi, a dirla tutta), significa che farne una questione di priorità, obbligare i ciclisti ad indossarlo, o anche semplicemente promuoverne l’utilizzo finendo con l’evocare paure inconsce, produce l’effetto opposto a quello desiderato.
Il fine ultimo della pubblica amministrazione dev’essere il miglioramento della vita dei cittadini. L’uso diffuso della bicicletta contribuisce in misura significativa al benessere collettivo, e in quanto tale va promosso. Chiunque, con qualsiasi pretesto (inclusa la pretesa tutela della sicurezza dei cittadini), ostacoli tale processo, non sta facendo il bene della collettività ma semplicemente portando acqua al mulino dei propri interessi.
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