Quante volte abbiamo sentito i media riferirsi ai dati sull’incidentalità stradale come ad un “bollettino di guerra”? Migliaia di morti ogni anno, centinaia di migliaia di feriti, in prevalenza giovani ed in ottima salute (l’incidentalità automobilistica è la prima causa di morte nella fascia d’età tra 18 e 25 anni) dovrebbero indurci a ragionare almeno un po’. Tuttavia su questi dati cala sistematicamente una cappa di omertà, e ci viene spiegato che tutto dipende dai comportamenti individuali, dal caso, dalla necessità, e che questa carneficina è in sostanza non evitabile.
Ho provato a prendere il concetto in senso letterale, lavorando sull’idea che “guerra” fosse un po’ più che una metafora per spiegare il fenomeno, come conseguenza ho iniziato a sviluppare parallelismi inquietanti. Si tratterebbe certo di una “guerra atipica”, ed andrebbe compreso quali siano le parti in conflitto e quale la posta in palio.
Quella in corso in ogni nazione del mondo occidentale è definibile solo nei termini di una guerra fratricida. Non è un concetto che debba apparire particolarmente atipico alla luce del fatto che in molte nazioni del terzo mondo hanno sperimentato conflitti analoghi, seppur combattuti con le armi e, dove non ci sono, coi machete (Ruanda).
La molla del conflitto in Ruanda viene identificata da Jared Diamond (Collasso) nella sovrappopolazione, e nel conseguente conflitto per le risorse alimentari: nella sua definizione una catastrofe malthusiana. Quello della sovrappopolazione è un dato evidente anche nel nostro contesto sociale ma alla radice del conflitto non ci sono (ancora) problemi alimentari, bisogna scavare più a fondo.
Quello che è diventato scarso, nella nostra società, è lo spazio. Sembra un paradosso ma le abitudini al consumo compulsivo, il modello di vita moderna che si è instaurato nel corso dei decenni, ha finito col confinarci in spazi sempre più ristretti e per periodi via via più prolungati senza che fosse possibile percepire questa forma di “riduzione in cattività” (operata spontaneamente dopo averla collettivamente interiorizzata).
Tuttavia, anche ciò che non percepiamo a livello conscio, ciò che consapevolmente neghiamo (“Sono prigioniero? Che sciocchezza!”), matura a livello inconscio producendo nevrosi. E non è negabile che l’accumulo di ricchezza e di oggetti, dentro le nostre case e fuori, la pretesa di spostarsi sequestrati dentro veicoli ingombranti che molto facilmente intasano le strade induce forme di stress non più gestibili.
Ricordo ancora con chiarezza il mio primo giorno da ciclista. Sembrerebbe strano, dato che sono passati ormai ventisei anni, ma è evidente che i momenti chiave della nostra esistenza, quelli attorno ai quali la nostra vita ruota e cambia direzione, restano fermamente stampati nella memoria. Ricordo nettamente gli spazi sconfinati che improvvisamente mi si aprivano davanti, la percezione di essere microscopico in un vasto mondo, la sensazione di libertà.
Sensazioni preziose perché ormai rare, ma nonostante ciò dalle quali dipende l’equilibrio mentale degli esseri umani. Ci raccontiamo che è normale vivere chiusi in appartamenti, è normale chiudersi in un veicolo per raggiungere il posto di lavoro, lavorare al chiuso la maggior parte della giornata, richiudersi di nuovo in un veicolo per andare finalmente a vivere un momento di svago, al cinema, ad ammirare spazi sconfinati proiettati su uno schermo in uno stanzone chiuso.
La mia diagnosi è che viviamo collettivamente in una condizione di claustrofobia latente, non percepita e quindi non gestibile, che produce nevrosi ed induce, come effetti collaterali, tutta una serie di comportamenti aggressivi legati alla percezione degli spazi ed all’affermazione/desiderio di libertà.
Inscatolati ed ingabbiati dentro le nostre automobili e confinati su sedi stradali che anch’esse hanno le caratteristiche facilmente riconoscibili di gabbie (guard rails, recinzioni, muri perimetrali…), le uniche forme di libertà che ci è concesso esprimere riguardano l’utilizzo di quella sede stradale: guida veloce, aggressiva, indifferenza alla segnaletica. Alimentiamo la nostra necessità di affermazione individuale e di libertà misurandoci coi limiti fisici dei nostri recinti mentali.
Torniamo ora al parallelo con la guerra. Chi combatte? Tutti quelli che hanno in mano un’arma, per quanto nella forma impropria di un veicolo: automobilisti, motociclisti, conducenti di mezzi pesanti. Chi è il nemico? Tutti e nessuno: le strade sono un’arena dove si combatte per l’affermazione individuale. Chi ci guadagna? Quelli che traggono vantaggi diretti dal modello di consumi attuale e non sono disposti a rimetterlo in discussione. Incidentalmente quegli stessi soggetti che hanno la massima capacità di orientare l’opinione pubblica e la percezione collettiva.
Si tratta nei fatti di una guerra atipica e non dichiarata, ma che ci coinvolge tutti nel ruolo di vittime e carnefici. Una guerra per di più inutile, prodotta in parte dall’egoismo e dall’avidità, ma in misura ancora maggiore dalla sciocca non-gestione, mancata organizzazione degli spazi urbani e collettivi, che un’attenta pianificazione urbanistica avrebbe potuto rendere molto più sani ed ospitali.
Alla luce di quest’analisi diventa evidente che le soluzioni non possono consistere unicamente nella repressione delle elevate velocità e dei comportamenti a rischio, ma dovranno coinvolgere un ripensamento complessivo del modello sociale e relazionale creando occasioni in cui la condizione di claustrofobia possa trovare sfogo.
Il punto principale è, come spesso accade, la mancata percezione della condizione patologica nella quale, come collettività, siamo lentamente scivolati. Le trasformazioni sociali e culturali che hanno seguito la rivoluzione industriale hanno portato sì ricchezza e benessere, che la propaganda non manca di esaltare, ma anche una quantità di problemi e contraddizioni sui quali si glissa, o si fa finta che non esistano del tutto.
Come interventi immediati andrebbe operato un recupero degli spazi urbani attraverso la rimozione forzata delle vetture in sosta, che da sole rappresentano una fetta importante delle “recinzioni non percepite” ed una limitazione pervasiva degli spazi collettivi (divenuta ormai usuale e pertanto difficile da mettere a fuoco).
Parallelamente andrebbe operato un recupero degli spazi non edificati ed andrebbero attivamente promosse forme di attività all’aria aperta in grado di riequilibrare la quotidiana sensazione di claustrofobia. Questo tipo di attività (passeggiate, bicicletta, jogging…) vengono già svolte individualmente da una parte della popolazione più attenta al proprio equilibrio mentale, ed andrebbero estese ulteriormente aumentandone le occasioni e gli spazi destinati e promuovendone la fruizione.
In prospettiva l’intera organizzazione urbana andrebbe ridisegnata in vista di una riduzione complessiva dell’uso delle automobili, sia investendo nel trasporto pubblico che con disincentivi al possesso ed all’uso di tali veicoli. Iniziative che in realtà più evolute della nostra si stanno già portando avanti da anni. Noi cosa stiamo aspettando?
Fonte | Mammifero Bipede
Infatti sono proprio d’accordo, io non capisco perchè nessuno riesce nemmeno a provare a lasciare sta stramaledetta auto a casa.
Ora d’inverno non posso perchè non posso permettermi d’ammalarmi per via del lavoro che faccio, ma non vedo l’ora che sia estate per evitarmi almeno il tragitto casa-lavoro con l’auto.
Secondo me sono le grandi città dovrebbero essere riorganizzate totalmente, accentrando tutti i servizi in un punto, rendendo i quartieri come una piccola cittadina in modo da non dover scappare da una parte all’altra, ma purtroppo è tutta un utopia.
Sarebbe bello anche vedere i quartieri divisi in due tra uffici, bar, locali notturni e negozi in una parte e case dall’altra… ma ripeto è tutta un’utopia.
I miei genitori non hanno la patente, io ho iniziato a guidare a 24 anni eppure ho sempre preferito la bici, da più di un anno mi sono trasferito da Ferrara a Pisa e posso dire di sentire questa claustrofobia e questo stress in maniera pesante.
A Ferrara usavo la bici tutti i giorni, anche solo per fare un giro o per andare a fare la spesa e c’erano spazi dove sentirsi protetti, certo non era il Paradiso, di incidenti tra ciclisti e automobilisti ce n’erano però mi sentivo a mio agio.
Usare la bici a Pisa mi fa sentire in costante pericolo e vedo automobilisti che sembrano non aver mai visto un ciclista, eppure di biciclette ce ne sono! Non ci sono piste ciclabili e il traffico è indiavolato e congestionato dalle 7 del mattino fino alle 11 di sera. Certo non siamo in situazioni da panico come Roma o Napoli, di certo Pisa non è la peggiore delle città italiane ma la differenza con Ferrara si sente.
In più molte cose sono letteralmente irraggiungibili tramite bici se non sfidando la sorte, e così sono letteralmente COSTRETTO ad utilizzare l’auto, e la claustrofobia, lo stress del traffico (magari generato da altre “vittime” come me), il girare a vuoto per cercare lo stramaledetto parcheggio, la benzina che finisce, stare in tensione perenne per evitare incidenti… oh li sento tutti.
Un esempio lampante, pensiamo alle due enormi aree verdi delle due città: a Ferrara per andare al Parco Urbano dal centro in bici ci si mette massimo 15 minuti, a Pisa per andare al Parco San Rossore ci vogliono 30 minuti di auto.
Io non capisco come si possa sopportare tutto questo, io non capisco come le città italiane che non sono state progettate per le auto siano diventate farcite di automobili… basta guardare la fantomatica ZTL, con auto parcheggiate dovunque. Io non capisco come le città non possano essere costruite intorno al cittadino e non all’automobilista.
Tra i tanti motivi per ritornare a Ferrara c’è questo, riappropriarsi della libertà.
Beh, tu non sei in una situazione “da panico” come Roma, ma io sì. Forse anche per questo certe situazioni mi appaiono più evidenti. Le grandi città producono più stress ed aggressività rispetto alle piccole, ed il motivo risiede (anche) nei tempi di spostamento eccessivamente dilatati e nell’incertezza prodotta dagli ingorghi. La cosa che mi sconcerta è come tutti sembrino accettare passivamente comportamenti alla lunga autolesionisti senza nemmeno provare ad immaginare stili di vita diversi.