C’è una guerra quotidiana che miete più vittime di qualsiasi altra, ma siccome non viene vista nel suo insieme la percezione che ne abbiamo è appannata, poco nitida, sbiadita: ogni anno nel mondo sulle strade muoiono 1,25 milioni di persone e 50 milioni sono i feriti, sopravvissuti costretti a convivere con traumi fisici e psicologici spesso devastanti. Tutto questo perché il sistema dei trasporti, dove una patente non si nega a nessuno e l’impunità stradale è ancora troppo diffusa, la sicurezza viene considerata un optional: in Italia la motorizzazione di massa e le colate di asfalto hanno trasformato il nostro territorio in un’ininterrotta Antologia di Spoon River stradale, intervallato ogni tanto da qualche mazzo di fiori che ricorda una vittima immolata sull’altare della velocità e della noncuranza del prossimo in auto, a piedi o in bicicletta.
Secondo il proverbio “tutte le strade portano a Roma” ed è proprio nella Capitale che pochi giorni fa si è tenuto un Consiglio comunale straordinario dedicato alle vittime della strada che ha visto la partecipazione di Jean Todt, ex ferrarista oggi presidente della Fia e inviato speciale dell’Onu per la sicurezza stradale. Un incontro importante dove la città di Roma, come Torino, ha votato all’unanimità il recepimento della Giornata Mondiale per le vittime della strada, accogliendo altresì le sollecitazioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha indetto la settimana della sicurezza stradale dall’8 al 14 maggio.
Le parole di Jean Todt sono state nette, senza lasciare spazio ai dubbi: “Ogni anno un milione e duecentocinquantamila persone perdono la vita in un incidente stradale, la morte su strada è tra le prime delle dieci cause di morte nel mondo, 50 milioni sono i feriti. Inoltre gli incidenti stradali sono la principale causa di morte a livello globale per i giovani, per le persone tra i 15 e i 29 anni. Sono numeri impressionanti e inaccettabili. In Italia più di 3.400 persone muoiono ogni anno su strada e circa 250 mila risultano ferite. Nel 2015 per la prima volta dal 2001 il numero delle vittime è cresciuto. Non bisogna abbassare mai la guardia”.
La sindaca Virginia Raggi ha rilanciato l’impegno della città di Roma: “La sicurezza deve riguardare tutti gli aspetti della mobilità e deve consentire a tutti di vivere la strada in modo consapevole e sicuro. Ci impegniamo con azioni concrete a raggiungere un obiettivo: ridurre drasticamente le vittime degli incidenti e rendere finalmente le nostre strade un ambiente sicuro e inclusivo. Ci diamo appuntamento tra qualche mese, numeri alla mano, per vedere insieme i risultati di Roma”. Intanto è stata approvata la delibera per ampliare le competenze della Consulta cittadina sulla sicurezza stradale, all’insegna di sostenibilità, inclusività e accessibilità urbana.
L’assessora alla Città in Movimento Linda Meleo ha annunciato le molte azioni già in cantiere per contribuire alla sicurezza stradale: “Dalla messa a protezione delle preferenziali alle nuove bike lane, che modificando la configurazione della carreggiata vanno a mettere in sicurezza una parte dei cittadini più fragili. Rispetto alle risorse, il 50% delle multe per legge va già destinato alla sicurezza stradale, quindi abbiamo già una fonte di finanziamenti da cui attingere. Mi auguro che la Consulta, che dalla sua creazione nel 2014 è stata operativa solo sulla carta, con la riconfigurazione di oggi passi a una dimensione di propositività che migliori la nostra azione”.
Eppure la sensazione è che l’impegno profuso per migliorare la sicurezza stradale sia largamente insufficiente a colmare il divario che si è creato tra “come ci si dovrebbe comportare in strada” e “come realmente ci si comporta”: perché per troppe persone alla guida oggi la sicurezza stradale è un optional, un concetto molto labile che si sgretola al primo trillo di notifica sul cellulare, in un contesto in cui la mancata precedenza a un incrocio sfocia in rissa e l’attraversamento sulle strisce pedonali viene considerato una gentile concessione e non un diritto.
Il 9 marzo di cinque anni fa, appena fuori Roma, moriva in bicicletta una ragazza di 22 anni: Alice Di Pietro, investita e uccisa sulla via Salaria da un automobilista alla guida di una Smart. Un fatto che scosse l’opinione pubblica, compattò il fronte dei ciclisti urbani che con il neonato movimento #Salvaiciclisti organizzarono un sit-in davanti a Palazzo Chigi e mi spinse a recarmi sul luogo dell’incidente in bicicletta per rendermi conto in prima persona della pericolosità della strada e per verificare che a quell’attraversamento a chiamata le auto in transito si fermavano molto di rado al semaforo rosso. E poi i mazzi di fiori sul ciglio della strada, i segni ancora freschi dell’incidente a poche ore dai funerali, il senso di vuoto e l’impotenza che mi hanno accompagnato sulla via del ritorno.
Da quel giorno, a cadenza di circa uno ogni 48 ore, si sono susseguiti centinaia di morti sulle strade di Roma e dintorni: considerati come “incidenti”, accettati come “statistica”, considerati come “fisiologici”. Una strage quotidiana raccontata un giorno dopo l’altro con trafiletti di giornale, mezza colonna in cronaca o una breve online con foto di repertorio, dimostrando la marginalità del tema nell’agenda dei media: finché la sicurezza stradale delle persone sarà considerata un optional e non un diritto si continuerà a morire su quel campo di battaglia composto da rotatorie e incroci, rettilinei e curve dove la vita vale poco e si spegne ai margini della carreggiata.
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