Gli elementi, come le mani di uno scultore, modellano i paesaggi sconfinati, le valli gigantesche e i dorsi delle montagne nude e rocciose. Lo sguardo si perde lontano tra la natura incontaminata che si alterna raramente agli insediamenti dell’uomo. Uno scenario completamente nuovo per i miei occhi abituati da sempre all’opposto: scorci di vegetazione soffocati da contesti urbani. Qui, sei tu e ancora tu.
Circondato da così tanta imponenza, a tratti, mi sento impaurito e piccolo come una formica e a tratti, incantato dinanzi a tale bellezza, assaporo ogni singola pennellata di questo immenso capolavoro restando minuti interi a bocca aperta.
Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan… nomi di Paesi che, prima di partire, non avrei nemmeno saputo collocare sulla mappa e che ora, invece, mi stregano con il loro fascino.
Per i viaggiatori come noi, che amano spostarsi via terra, sono una tappa obbligatoria per raggiungere l’Est. Mai, come fino ad ora, ci eravamo ritrovati a pedalare in compagnia di altri otto cicloturisti, ognuno con le proprie storie, ognuno con i propri perché. Come il collo di un imbuto, la Pamir Highway, ovvero l’autostrada del Pamir, convoglia avventurieri provenienti da ogni angolo del mondo. Ovviamente di autostrada, per come la intendiamo noi in Occidente, ha ben poco. Credo che il nome trovi radici più appropriate nella traduzione letteraria del termine inglese High Way = Strada Alta. Chiamato anche “Tetto del Mondo”, il Pamir, è orlato da vette che superano abbondantemente i 7.000 metri e l’intero altopiano viaggia su una media tra i 3.000 e 4.000 metri d’altezza. La strada del Pamir, o anche M41, è, di fatti, un enorme serpentone di sterrato, lungo circa 1000km che attraversa l’intero altopiano, costeggia l’Afghanistan, e striscia su e giù per passi a 3600m, 4200m e infine a 4655m (quello più alto), che funge da confine col vicino Kirghizistan. Noi lo attraversiamo facendo autostop.
A seguito di una caduta di qualche settimana fa, io, Marco, ho la spalla fratturata, il braccio fuori uso e 4 punti in testa che si stanno rimarginando, impossibile pedalare! In compagnia di uno yak e delle acque smeraldine del lago di Karakul, Tiphaine monta la tenda e prepara da mangiare. Per quanto intorno a noi sembri essere pianeggiante ci troviamo a quasi 4.000 metri d’altitudine e la mancanza di ossigeno si sente. Il fornellino impiega il triplo del tempo per cucinare un piatto di pasta, e il nostro respiro è affannoso. Indossiamo tutto ciò che abbiamo, ci prepariamo per quella che sarà la notte più fredda del viaggio: -15°C.
Ci si sveglia scricchiolanti e di buon ora. Ci mettiamo da subito in postazione e gesticoliamo con le mani non appena avvistiamo un veicolo all’orizzonte. Passeranno si e no 5 auto al giorno da queste parti e dobbiamo sperare che tra loro ce ne sia almeno una che sia disposta a caricare noi e le nostre pesanti bici oltre confine, se vogliamo evitare di passare un’altra notte in tenda.
Il vento rende l’aria ancora più gelida e nonostante il sole, ci taglia quei pochi pezzi di pelle scoperti in viso. Alcuni abitanti del paesino offrono di accompagnarci alla frontiera a suon di dollari, ma siamo convinti che la « divina provvidenza » stia lavorando ad una soluzione più adatta per noi poveri squattrinati, bisogna solo avere tempo e quello proprio non ci manca!
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