Dopo la nomina di Enrico Giovannini alla guida del dicastero di Porta Pia, il primo atto ufficiale, dopo la nomina dei sottosegretari, è stato il cambio di nome del MIT che diventa Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili.
Sul web non mancano ovviamente il sarcasmo e il cinismo di chi vede nel cambio di nome solo un atto cosmetico, una cacofonica concordanza dell’aggettivo o un becero atto di greenwashing.
Queste considerazioni provengono soprattutto da persone che non sono abituate a lavorare con la pubblica amministrazione: un mondo governato non necessariamente dal buon senso, ma sempre dalle parole e dai nomi.
La pubblica amministrazione non è quel luogo in cui un volenteroso che si rimbocca le maniche inizia a fare ciò che vuole a proprio piacimento: servono incarichi, direttive, regolamenti e istruzioni. Questo serve a evitare il caos.
D’altra parte, la necessità di dover fare sempre l’elenco di tutto finisce per lasciare fuori sempre qualcosa.
Tra le competenze di un ministero che si occupa di infrastrutture e trasporti (cioè di cose che servono a spostare le persone) è quindi possibile che non ricadano alcuni aspetti come l’andare a piedi o in bicicletta.
E infatti nel nostro paese dell’andare a piedi e in bicicletta se n’è sempre occupato il Ministero dell’Ambiente, assieme alla gestione dei rifiuti, delle foreste e del mare. Il risultato più evidente è che le politiche dell’andare a piedi e in bicicletta sono sempre state svincolate da quelle delle infrastrutture e dei trasporti. I risultati si vedono.
Passare dai trasporti alla mobilità sostenibile significa cambiare la missione del ministero che non sarà più solo di agevolare la circolazione degli strumenti di spostamento (i trasporti), ma piuttosto di rendere possibile e sostenibile lo spostamento delle persone (mobilità).
Significa passare da “quanti veicoli riesco a spostare da A a B” a “quante persone riesco a spostare da A a B”.
Con l’atto di rinomina in Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Giovannini sta dicendo ai propri uomini “guardate che noi ci occupiamo di queste cose”.
E l’indicazione è quanto mai importante soprattutto alla luce della compagine dei sottosegretari scelti dal ministro o, più probabilmente, imposti dai partiti politici.
Teresa Bellanova è quella che si può chiamare un’infrastrutturalista, viene da un partito (IV) legato al mondo dei petrolieri, che vuole la TAV, le grandi opere e si riesce facilmente immaginare in che direzione vorrà andare nel proprio operato. Così a occhio viene da dire che non si muova molto, né a piedi, né in bicicletta.
Alessandro Morelli è il viceministro in quota Lega. Ha salutato la propria nomina con un “adesso ingraniamo la quinta e andiamo a 150” invocando l’innalzamento dei limiti di velocità sulle autostrade; Negli ultimi mesi si è contraddistinto nell’opposizione alle nuove corsie ciclabili introdotte da Sala a Milano e nomina con una certa frequenza il ponte sullo stretto.
Giancarlo Cancelleri è il sottosegretario in quota M5S, in continuità col precedente governo. Il suo focus è lo sviluppo infrastrutturale del sud soprattutto in ambito ferroviario.
Grande assente dalle corde dei sottosegretari sembra essere quindi il tema della mobilità urbana che, in un era di smart working, spopolamento delle città e di disaffezione nei confronti del trasporto pubblico, assume un rilievo strategico per il futuro del paese, soprattutto perché è ancora aperta la partita del recovery plan e i fiumi di denaro che questo promette.
E qui arriva il nodo centrale della questione: la scorsa settimana a Pescara è comparsa una bizzarra interpretazione di corsia ciclabile, la soluzione introdotta nel nostro ordinamento dal decreto rilancio ma la mancanza di un regolamento attuativo ha portato lo sventurato progettista a fare appello alla propria immaginazione. La mancanza di preparazione e formazione del tecnico incaricato ha fatto il resto.
Volendo banalizzare, nella sbornia infrastrutturalista del XX secolo abbiamo costruito rotatorie come se non ci fosse un domani, convinti che avremmo risolto in questo modo tutti i problemi dell’umanità. Poi ci siamo accorti che portarci un bambino a piedi o in bicicletta è un’esperienza estremamente sgradevole. Oggi serve qualcuno che dal ministero dica qui in basso, nei comuni, sulla strada, come si risolvono queste cosucce.
E questi problemi si risolvono modificando alcune norme del codice della strada, prevedendo percorsi di formazione interna e attuando le leggi già esistenti – tipo la legge quadro della mobilità ciclistica 2/2018 che stabiliva che entro il luglio 2018 si sarebbe dovuto produrre un Piano Nazionale della Mobilità Ciclistica, ma non è stato fatto.
Per fare tutto questo, serve qualcuno che se ne occupi, che abbia la delega politica e operativa.
Le principali associazioni per la mobilità attiva in Italia hanno già richiesto l’istituzione della figura di un Bike Manager nazionale, con il compito di coordinare tutte queste attività che fino a oggi sono state competenze di nessuno e di assistere le città nella transizione della propria mobilità in direzione della sostenibilità.
Senza un’azione in questa direzione, il nuovo Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili sarà poco più di un apparato burocratico per l’installazione, sui marciapiedi della penisola, di colonnine di ricarica per automobili elettriche lasciando ancora una volta ai sindaci il compito di risolvere i problemi della gestione degli spostamenti nell’ultimo chilometro.
In tutto questo, il passato di Giovannini ci dice in che direzione potrebbero andare le cose.
Stiamo a vedere.
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