La Hack svela la formula di #salvaiciclisti

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Le stelle stanno dalla nostra parte. E anche chi le stelle le studia. L’astrofisica Margherita Hack ha aderito a #salvaiciclisti sottolineando – sono le sue parole – «che la sicurezza sulle nostre strade è molto poca, spesso le automobili sfiorano i ciclisti, mancano delle piste ciclabili capillari e adeguate. Serve più rispetto per i ciclisti da parte delle automobili e più considerazione da parte dei politici. Le biciclette non inquinano e permettono di andare spesso alla stessa velocità degli scooter. Sono perfette per le città italiane, con i centri storici stretti e caotici, per riuscire a muoversi con agilità nel traffico. Bisogna aiutare e sostenere i ciclisti».

La Hack è una ciclista da sempre. Qualche mese fa avevo avuto occasione si parlarle e le avevo chiesto se avesse mai scoperto la formula scientifica della superiorità della bicicletta sugli altri mezzi di trasporto. «No, ancora no. Forse non mi ci sono applicata abbastanza», si era rimproverata col sorriso sulle labbra. A ogni buon conto, con una semplice equazione, aveva spiegato tutto il piacere di stare sul sellino: «Si va abbastanza forte per assaporare l’ebbrezza della velocità; si va abbastanza piano per poter gustare il paesaggio e immergersi nella natura e nei suoi odori».

Coi 90 anni a un passo, la Hack ha da poco deciso di mettere mano alla sua autobiografia e ha scelto un modo curioso per farlo, in punta di pedali. Il suo libro (La mia vita in bicicletta, Ediciclo editore) è, infatti, un lunghissimo viaggio su due ruote che inizia all’età di cinque anni: le prime esperienze sulle bici prestate dagli amici di famiglia visto che non c’erano abbastanza soldi per comprarne una, le discese pazze a 60 all’ora da ragazza, finalmente quella tutta sua («Pesante e senza marce, ma subito ridipinta color argento per farla sembrare una bici da corsa») che l’accompagnava a scuola, agli allenamenti di giovane campionessa italiana del salto in alto, in interminabili gite di centinaia di chilometri e poi all’università, al lavoro, alle ricerche tra le stelle.

Scrive in modo semplice la Hack e il libro fila via liscio come una catena che scorre in ingranaggi oliati, rimanendo fedele fino all’ultima pagina a quello che scrive all’inizio parlando di suo marito. «La prima domanda che rivolsi ad Aldo fu: sei per Binda o per Guerra?», ricordando la rivalità tra i due campioni del ciclismo di allora. «Era l’estate del ’33, io avevo 11 anni, lui 13. Oggi io ne ho 89 e lui 91, ma giochiamo ancora insieme». Ecco, gioca la Hack con la sua memoria, con leggerezza e ironia, senza prendersi troppo sul serio e senza vestire mai i panni dell’eroina, anche se la sua carriera di scienziata glielo consentirebbe. Racconta la sua storia e fa rivivere un pezzo di storia d’Italia: gli anni di Mussolini, suo padre licenziato perché antifascista, lei stessa non ammessa agli esami di maturità per motivi politici, la sua professoressa di scienze ebrea costretta al suicidio in carcere. Eppoi la guerra, il boom economico, affascinanti piccoli borghi da scoprire in bicicletta e periferie sempre più estese e sempre più brutte, i ragionamenti più recenti su religione e eutanasia, immigrazione e cambiamenti climatici.

«Ora ho poco fiato – scrivela la Hack nelle ultime pagine – tre bypass, una valvola in condizioni non perfette. Devo concludere che non avrò una quarta giovinezza e dovrò decidermi ad attaccare la bicicletta al chiodo». Lo farà davvero? «Beh, non c’ho la gioia d’un tempo a pedalare» risponde «non posso più fare quelle lunghe giratine…». Poi s’interrompe e sorride: «Ma come si fa a lasciare una bici in cantina?».

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