Gli automobilisti vanno denigrati?

Campagne per la condivisione della strada, dialogo, buonismo. E’ questa la strategia migliore per convincere le persone a non usare l’auto? La storia ci insegna di no.
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Visto come le case automobilistiche, nel secolo scorso, hanno criminalizzato pedoni e ciclisti per affermare il dominio delle auto sulle strade, è lecito chiedersi se la via del dialogo sia quella più efficace affinché attivisti, associazioni ed aziende di settore convincano più persone ad abbandonare l’auto e a spostarsi a piedi, in bicicletta e con i mezzi pubblici.

Fino ai primi anni del ‘900 le strade erano spazio pubblico, occupato da carretti, cavalli, biciclette e pedoni, poi il lavoro di lobby delle aziende di auto ha portato ad un rovesciamento della situazione, rivendicando le strade come luogo destinato principalmente alle macchine incolpando pedoni e ciclisti degli incidenti di cui erano vittime. Come le case automobilistiche siano riuscite in questa impresa si è visto nell’articolo linkato poco sopra, ma vale la pena ricordarlo in sintesi.
Hanno fatto lobby, si sono unite in un’alleanza. Pur essendo concorrenti, hanno capito che in gioco c’erano interessi comuni e che solo insieme potevano salvaguardarli.
Hanno capito che la grande sfida non era “vendere macchine”, ma piuttosto inculcare un’idea, un concetto. Affermare l’automobile come mezzo di trasporto di tutti e “normalizzarlo” nonostante il suo potenziale omicida.
Hanno potuto contare sul supporto dei consumatori. Chiedendo ai proprietari di automobili di inviare una lettera di protesta contro l’introduzione di un limitatore di velocità nella città di Cincinnati, le aziende e i consumatori si sono spalleggiati a vicenda, e alla fine l’hanno spuntata.
Hanno ricevuto l’appoggio della stampa. Come spiegato nell’articolo di cui sopra, le aziende automobilistiche “sono entrate” nelle redazioni dei giornali, chiedendo ai cronisti di fornire loro alcuni dettagli degli incidenti stradali in cambio di un articolo completo e gratuito sull’accaduto in cui la colpa dell’incidente veniva sistematicamente attribuita a pedoni e ciclisti.
Hanno puntato sull’educazione dei ragazzi finanziando campagne e concorsi all’interno delle scuole e spiegando che le strade erano luoghi destinati alle auto, non ai pedoni.
Hanno ridicolizzato l’avversario. Lo hanno fatto vergognare. Hanno coniato il termine dispregiativo “jaywalking”, hanno organizzato eventi pubblici in cui dei pedoni, vestiti da clown o con abiti del secolo passato, venivano investiti simbolicamente dalle automobili.

Si è rivelata vincente questa strategia? Evidentemente sì, basti guardare la situazione attuale: le strade sono congestionate dalle auto, l’incidentalità stradale causa milioni di morti ogni anno eppure tutto ciò è assolutamente normale per la maggior parte delle persone. Una specie di legge naturale alla quale è impossibile opporsi.

Di contro, se il settore bike non è ancora riuscito ad imporsi come dovrebbe, nelle teste ancora prima che nelle strade, per giunta in un’epoca storica che lo dovrebbe vedere protagonista, è anche perché le aziende hanno agito, e continuano ad agire, in modo diametralmente opposto a quello delle case automobilistiche. Ecco perché:

Non fanno lobby. Le aziende del settore bike sono ancora, nella maggior parte, impegnate a farsi concorrenza tra loro e non hanno capito che in gioco ci sono interessi comuni. Esiste un organo mondiale, il Cycling Industry Club, che riunisce le aziende di bici e accessori al fine di esercitare pressione sulla politica europea. Purtroppo a farne parte sono poche aziende illuminate.
Continuano a vendere bici, invece di vendere ciclismo. Non hanno capito che una bicicletta è una bicicletta, è soltanto un oggetto, che invecchia e arrugginisce. Ci raccontano di componenti dalle ultime tecnologie, di prestazioni e milligrammi. E intanto le aziende automobilistiche continuano a vendere emozioni, libertà, spazi aperti e paesaggi da sogno.
Non creano un’alleanza con i consumatori. Quante aziende hanno coinvolto i ciclisti in campagne di sensibilizzazione e di promozione della bici? Quante aziende hanno sostenuto attivamente la campagna inglese #cyclesafe e quella italiana #salvaiciclisti? Poche.
Non cercano (o non ottengono?) il supporto della stampa. Perché le associazioni e le aziende del settore bike non fanno pressione affinché i media comincino a fare informazione corretta sulla mobilità ciclistica? Finché questo non avverrà, saremo ancora costretti a leggere le opinioni di editorialisti e benpensanti che giustificano gli automobilisti indisciplinati in nome del fare “italo-italiano”.
Non puntano sull’educazione dei ragazzi. Perché le aziende non supportano attivamente le belle iniziative del bike to school che hanno preso piede a Milano e Roma, portate avanti solo da genitori e cittadini volenterosi?
Giustificano l’avversario, invece di denigrarlo. Qui le aziende non c’entrano, ma c’entriamo “noi”, noi che parliamo di condivisione della strada con immagini buoniste in cui guidatori di suv e ciclisti si tengono per mano, che colpevolizziamo il pedone o il ciclista di turno perché non aveva il caschetto e le luci, noi che diciamo “i pedoni e i ciclisti vanno tutelati ma…”.
Un atteggiamento che ricorda il discorso dello schiavo di Silvano Agosti, che recita: “Tu fai giustamente un discorso in difesa di chi ti opprime, perché è tipico dello schiavo. Il vero schiavo difende il padrone, mica lo combatte. Perché lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede quanto quello che non è più capace di immaginarsi la libertà.”

Ora qualcuno potrebbe obiettare che non esistono ciclisti e automobilisti e che spesso sono le stesse persone. Vero, ma anche nel 1920 chi aveva comprato un’auto continuava ad essere un pedone per tutto il tempo in cui non guidava, eppure questo non fu un motivo sufficiente per le case automobilistiche per non portare avanti le proprie campagne denigratorie contro pedoni e ciclisti.

Tornando al metodo, uno come Mikael Colville-Andersen, bike urbanist e riconosciuto esperto di comunicazione della ciclabilità, non si sognerebbe mai di produrre una locandina sul genere share the road. Anzi, Mikael nella sua comunicazione è rigido e detta regole precise: ad esempio sui blog Cycle Chic di tutto il mondo, marchio di sua proprietà, è assolutamente vietato immortalare ciclisti che indossino il caschetto. Mikael inoltre fa con le auto e gli automobilisti esattamente quello che le aziende di auto fecero (con successo) con pedoni e ciclisti: le ridicolizza e le criminalizza. Ecco un video di due anni fa prodotto dalla sua azienda Copenhagenize che gli è costato anche qualche grana con la casa Citroen.

Commenti

  1. Avatar Enrico Balugani ha detto:

    Tutto indubbiamente verissimo.
    1) L’Olanda e’ arrivata dov’e’ arrivata LOTTANDO contro le automobili a causa delle morti di bambini e giovani sulle strade: https://bicycledutch.wordpress.com/2011/10/20/how-the-dutch-got-their-cycling-infrastructure/
    2) Il “shared-space” non funziona: dove e’ stato usato, gli incidenti auto-ciclista e auto-pedone sono cresciuti significativamente: http://www.aviewfromthecyclepath.com/search/label/shared%20use%20paths

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