Tutti distesi per terra con accanto la loro bici per simulare l’investimento e ricordare i ciclisti uccisi sulle strade di Londra: gli attivisti della bici si sono dati appuntamento il 31 ottobre nel quartiere Battersea, all’incrocio dove una settimana prima c’era stata l’ultima vittima in bici, la trentaduenne italiana Lucia Ciccioli.
In realtà a poche ore dal flash mob del “die-in” per ricordare Lucia, a qualche isolato di distanza sull’altra sponda del Tamigi veniva investita e uccisa un’altra giovane vittima italiana in bicicletta: Filippo Corsini, 21 anni, rampollo di una nobile famiglia fiorentina volato a Londra per studiare alla prestigiosa Regent’s University.
Due morti ravvicinate che hanno fatto tornare di stretta attualità il tema della sicurezza per chi pedala a Londra: dall’inizio del 2016 sono 8 i ciclisti investiti e uccisi in città e la dinamica – come in questi ultimi due casi – riguarda quasi sempre impatti con camion, mezzi di trasporto da lavoro ingombranti e con angoli ciechi su cui si regge buona parte della logistica legata all’economia dell’edilizia e ai cantieri che sta costruendo la Londra del futuro. Una sfida difficile per il sindaco di Londra Sadiq Khan che sei mesi fa – all’inizio del suo mandato – aveva speso parole a favore della mobilità ciclistica.
La sicurezza di chi pedala a Londra rappresenta un tema caldo, che torna alla ribalta ad ogni nuovo ciclista urbano investito e ucciso: un tributo di sangue che la campagna “Cities fit for cycling” lanciata dal Times il 2 febbraio 2012 ha avuto il merito di denunciare chiedendo agli amministratori della città di tutelare maggiormente chi si sposta in bici, cominciando ad imporre regole più stringenti proprio ai famigerati camion, i mezzi più pericolosi per chi pedala. Ma le risposte finora non sono state sufficienti, come dimostrano i fatti di cronaca.
Il gesto dimostrativo del die-in, così come le ghost bike lasciate sui luoghi degli incidenti rappresentano gli unici modi che i cicloattivisti hanno per rendere visibile la loro vicinanza a chi non c’è più e per gridare al mondo la loro voglia di vivere. Ricordando che è assurdo morire solo perché si sta pedalando: continuando a pedalare anche per chi non c’è più, per non morire dentro.
Iniziativa lodevole per sensibilizzare la gente su questo problema.
A mio avviso, sarebbe anche utile stilare un memorandum, per i ciclisti, che aiuti a riconoscere le situazioni e le manovre più pericolose.
Da ex motociclista smanettone, penso che molti ciclisti, spesso, si mettano in situazioni di pericolo, senza rendersene conto. Il che non significa violare il CdS. Più che altro, mi sembra ripongano troppa fiducia nel prossimo.
A me, per fortuna, è rimasta la “prospettiva” della moto, secondo cui è bene non fidarsi MAI di nessuno. E, negli anni, avendo schivato innumerevoli automobili che non mi avevano visto…, ho imparato a prevenire il più possibile ogni rischio legato al traffico, anche perché, spesso, le dinamiche degli incidenti sono ripetitive.
A volte, basta percorrere una linea un po’ diversa, o variare di poco la velocità, per guadagnare angolo di visibilità, metri di spazio, o qualche decimo di secondo, utili ad evitare impatti.
Non si può andare in bici spensierati, con la pretesa di esser visti come un’automobile.
Altrettanto, non ci si può permettere il lusso di pretendere l’assenza di distrazione da parte degli altri utenti. Sarebbe legittimo ma, in bici, è troppo pericoloso.
Questo concetto, a mio umile avviso, dovrebbe esser chiaro a tutti.
Per tal motivo, pensando ai ciclisti che hanno poca esperienza/dimestichezza col traffico, ritengo che un po’ di formazione in tal senso sarebbe utilissima.