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Olandesina in the Sky
di Massimiliano Natali
Un altro giro di pedale e poi mollo.
Ho gli occhi che bruciano e mi offuscano la vista. Un crampo al piede destro mi sta mettendo KO ma vedo la fine della salita. Colle Pinzuto. Granfondo Strade Bianche.
Un altro giro di pedale, “puoi farcela”, mi ripeto e prometto a me stesso che sarà l’ultimo.
Era il 2013 quando decidemmo di intraprendere un viaggio: percorrere le strade del nostro paese dal Mar Tirreno a quello Adriatico, un coast to coast attraverso l’Appennino a bordo delle nostre biciclette.
Fin qui vi verrebbe da credere “eh, vabbeh, tutto normale” ma la verità è che le nostre biciclette erano delle semplici Olandesine senza marce. Bici da donna con la canna curva, con tanto di cestino e campanello. Il motivo per cui prendemmo una decisione cosi stupida non è, ad oggi, ancora chiaro, ma sta di fatto che quell’idea strampalata avrebbe per sempre cambiato la mia vita.
Prima del 2013 non ero mai salito in sella ad una bici, si potrebbe dire che ero poco più di un principiante che ha appena tolto le rotelle, ma nella mia testa si andava delineando l’idea di un viaggio lento, senza l’ausilio di un’automobile o di un aeroplano.
Sono cresciuto in una famiglia dove Sanremo non è un festival musicale ma il punto di arrivo di una grande classica del ciclismo, una famiglia dove le due ruote hanno da sempre rappresentato una ragione di vita. Forse per questo, forse per puro caso, in quel 2013 cominciai a considerare l’ipotesi che la bici fosse il miglior mezzo di locomozione del mondo.
In ogni storia che si rispetti, c’è un eroe, e sempre in quella storia, l’eroe è in possesso di una spada magica o di un fidato destriero. Questo racconto non fa eccezione.
La ragione che mi stava spingendo a salire in sella è una “ragione” blu scintillante. Una bicicletta di cui mi innamorai subito non appena la vidi. Si può amare un oggetto inanimato? Forse sì, forse no, ma a me non interessa perché la mia bici un’anima ce l’ha.
Comunque in quel 2013, in compagnia di mio cugino Simone e del mio grande amico Stefano, partii per questo epico coast to coast.
Il piede si contorce se lo posiziono male. Ragiono di pedalata in pedalata. Sposto il piede un po’ più avanti sul pedale. Non avere gli attacchi in questo caso gioca a mio favore. Continuo a mentire a me stesso. Ancora qualche pedalata, all’altezza di quel cartello stradale posso mollare, non devo dimostrare niente a nessuno. Ho la bocca aperta e la mascella incordata, vista appannata e dolori vari. Un’altra pedalata e avrò domato Colle Pinzuto!
Mi ricordo esattamente il momento in cui realizzammo che ce l’avevamo fatta. All’orizzonte dietro la linea dei palazzi cominciò a delinearsi, di un colore blu scuro, il mare.
Avevamo attraversato l’Appennino, 315 km in sella a delle Olandesine senza marce.
Non era niente male per uno che, compresi quei 315 km aveva forse pedalato in vita sua per un totale di 400 km. La storia aveva cominciato a prendere forma e il pedale con il suo moto regolare e ciclico mi stava conducendo verso il resto della mia vita.
Mio cugino, ironia della sorte, trovò presto lavoro in un negozio di biciclette e decise che mai più nella sua esistenza avrebbe messo il suo sedere su di un sellino. Stefano si trasformò saltando sopra un bolide da corsa.
Ma quella non era la strada che avevo deciso di intraprendere io. Avevo scoperchiato il Vaso di Pandora e l’idea di non sapere che limiti avesse quel nuovo modo di viaggiare strampalato mi entusiasmava.
Se mai vi capiterà di imbattervi in qualche articolo che parla di noi, noterete che accanto a me c’è sempre un ragazzone alto un metro e novanta con un sorriso beota tanto quanto il mio e la stessa scintilla negli occhi. A questo punto della storia entrò in scena Riccardo, mio grande amico e artefice di quella che noi chiamiamo Olandesina In the Sky.
Nel mio primo viaggio avevo capito un paio di cose, la bici è scomoda, e la gravità specialmente in salita, gioca contro chi possiede un mezzo con una sola velocità ma al contempo ero cosciente che ogni salita, anche quella più dura poteva essere vinta.
Con la voglia di misurarci con noi stessi decidemmo che era arrivato il momento di sfidare le Alpi. La consapevolezza di dover affrontare passi come il Claviere o il Col du Lautaret ci impose la costruzione di un sistema d’allenamento personalizzato. Mettemmo in piedi quello che ci divertiamo, ancora oggi, a chiamare The Program. Ciò che era iniziato come un viaggio si stava lentamente trasformando in qualcosa di diverso, qualcosa che aveva molti connotati sportivi e che ci costringeva ogni volta a scavare dentro di noi cercando di migliorarci per superare il metro che avevamo davanti. Cominciammo, perciò, a pedalare lungo le ripide strade del nostro comprensorio ed inaugurammo la “stagione delle prime volte”.
Ci fu quella volta in cui raggiungemmo i prati di Stroncone, o quella volta in cui arrivammo a Colle Bertone. Pedalavamo e ci arrampicavamo letteralmente con le nostre bici. Era un continuo valzer di sudore sangue e fatica ma tutto questo ci stava conducendo lontano, tutto questo ci stava portando al di là delle Alpi.
“Un altro giro di pedale! Stai zitto stupido coglione!”, nella mia testa comincio a parlare da solo.
Sto per scollinare, questa salita infame con pendenze al 18% sta per finire. Mancano poco più di cinque metri. Vai Massi sta volta è veramente l’ultimo giro di pedale. Sono in cima a Colle Pinzuto ma non ho tempo di festeggiare, la Gran fondo Strade Bianche non è ancora finita. “Mancano ancora due muri quindi mettiti sotto e pedala”.
L’emozione che provai in cima al Col du Lautaret è indescrivibile, nell’estate delle prime volte, ero stato per la prima volta a quote sopra i 2.000 mt. Io e la mia Olandesina blu, immersi in uno scenario epico con le prime nevi che cominciavano a cadere. Avevamo domato le Alpi. Quasi 400 km attraverso diabolici passi alpini e poi giù in picchiata nella torrida estate francese. Un viaggio da Torino a Lione che aveva cambiato la visione del mio mondo. Ora tutto ruotava intorno al gioco centrale e assumeva continuamente un significato nuovo. Al mio fianco c’era Riccardo che invece di stemperare i toni, rincarava la dose sfidandosi nella ricerca di qualcosa di ancora più estremo.
La fantasia è contagiosa e il divertimento è in movimento. Era inevitabile che accadesse ma i giri di pedale avevano cominciato a farsi interessanti e avevano generato un’attrazione gravitazionale che portò negli anni successivi alla crescita della nostra famiglia viaggiante. Entrarono in squadra prima Davide e poi Umberto. Tutti rigorosamente in sella ad un’Olandesina senza marce.
Negli anni 2015 e 2016 attraversammo tutta la Sicilia scalando i Nebrodi e le Madonie e poi tornammo sulle Alpi, sta volta austro-tedesche, per raggiungere Monaco di Baviera e l’Oktoberfest.
Migliaia di km ci erano entrati nelle gambe, centinaia e centinaia di orizzonti ci avevano tolto il fiato e avevano ispirato i nostri pensieri e influenzato i nostri progetti. Pedalare ci aiutava a crescere come uomini e nel farlo avevamo avviato un moto perpetuo che aveva bisogno continuamente di spinta. Un pedale scendeva spingendo verso l’alto il suo corrispettivo che poi gli restituiva il favore spingendolo a sua volta.
Ciò che era cominciato come un’idea bislacca, adesso possedeva una forma ed un’anima tutta sua. Eravamo l’Olandesina In the Sky e ci sentivamo inarrestabili, era giunto il momento di andare all’università della bicicletta e sfidare il Passo dello Stelvio.
Sono poche le cose che ti tolgono il fiato quando le guardi, una di queste, almeno per chi va in bicicletta, è la vista della strada piena di tornanti che puoi ammirare dalla vetta di Passo dello Stelvio. Volevamo andare fin lassù e prendercela.
Cerco di capire quanto manca al prossimo muro, non possiedo un contachilometri, perché non è nel mio stile, per cui mi accosto agli altri ciclisti lungo il tracciato e domando cortesemente. Le risposte sono vaghe e vanno pesate minuziosamente, non vorrei che l’ottimismo di alcuni mi travolga o che il pessimismo di altri mi faccia sprofondare. So che ho ancora qualche sprint da giocarmi quindi abbasso la testa e mi limito a pedalare stando attento a non mettere male il piede per non far tornare i crampi.
Il giorno 11 Agosto 2017 sulle Alpi cominciò ufficialmente l’inverno. Il suo arrivo venne preceduto da un’accogliente nevicata e ore interminabili di piogge e vento forte. Nella tempesta si muovevano le nostre biciclette. Tutt’intorno a noi la nebbia inghiottiva il paesaggio lasciandoci spaesati e soli con noi stessi. La cima di Passo dello Stelvio era lì da qualche parte e il conto alla rovescia scandito dai tornanti rendeva lo sforzo ancora più duro. Corpo e mente lottavano incessantemente per non cedere difronte al freddo e alla fatica. Stavamo pedalando da ore e ci eravamo distanziati, ognuno di noi, con la sua Olandesina, stava cercando di ascendere.
Per me la parola ascesa è sempre stata importante. Piena di significato e simbolismo. La bici è un perfetto sinonimo della vita perché come nella vita devi affrontare strade tortuose, e fare affidamento sulle tue forze e sul tuo temperamento. Come nella vita, talvolta puoi contare sull’aiuto di un compagno e prendere la scia e altre volte puoi, tu stesso, tendere una mano e portare qualcuno fino alla vittoria. Nel ciclismo si soffre in squadra ma si lotta per obiettivi individuali e se vuoi farcela devi cercare quel qualcosa in più che è sepolto dentro di te. Si chiama crescere. Diventare uomini.
La vista dalla cima di quella perfida montagna era stupenda. Aperta sull’intera valle sferzata dal vento e dalla pioggia. Sopra le nostre teste il temporale stava colorando di bianco ogni cosa. Al centro di tutto questo io e la mia bicicletta blu scintillante rimanevamo in contemplazione del mondo sottostante. Il viaggio non era cominciato da Merano, come in tanti credono, ma bensì quattro anni prima, in un garage spolverando una vecchia bicicletta blu. Un viaggio lungo e pieno di insidie, di momenti difficili e di grandi soddisfazioni personali. Il viaggio era l’insieme di tutto e quel momento non era un arrivo ma solo una tappa. La bicicletta. La vita.
Scorgo da lontano la salita delle Tolfe. Non è una salita normale, vista da dove mi trovo adesso sembra che la strada termini impennandosi verticalmente verso il cielo. Ho studiato attentamente il percorso aiutato da mio padre e so cosa devo fare. Lascio strada libera tra me e chi mi precede poi mi lancio in discesa a tutta velocità. Adesso devo dare tutto me stesso sfruttando la spinta della discesa e volare in salita in un unico crescendo. Basta un intoppo e mi fermo. Basta un metro calcolato male e mi fermo. Non c’è margine di errore. Se voglio arrivare la in cima devo dare tutto quello che ho nelle gambe.
Scesi dallo Stelvio attraversammo la Svizzera e tornammo in Italia attraverso Passo Bernina. Un’altra storia volgeva al termine. Negli anni il nostro incessante pedalare era stato un crescendo di difficoltà sia logistiche che fisiche, dove potevamo andare ora che anche lo Stelvio era stato conquistato? La Risposta fu MAROCCO
Caricammo le biciclette su un aereo direzione Marrakesh (Pagando 120 euro euro per trasportare bici dal valore commerciale di non più di cento euro) e una volta in terra africana ci avventurammo verso l’Alto Atlante, la catena montuosa più selvaggia e aspra di tutto il Nord Africa.
Furono giorni assurdi, pedalando attraverso deserti a 45 gradi e scalando montagne con temperature vicine allo zero. Grandine, pioggia e saette e poi tempeste di sabbia. Dormimmo a casa dei Berberi fieri ed ospitali e mangiammo tutto quello che ci veniva offerto.
Eravamo beduini in sella a ferro e gomma e non avevamo intenzione di fermarci.
Manca poco. Santa Caterina è vicinissima. La mia bicicletta blu è ancora in gara, cerco di conservare ogni grammo di energia sfruttando la strada asfaltata e la leggera discesa. Le vibrazioni delle ultime tre ore mi hanno messo a dura prova. Si scende veloci intorno a Siena e da lontano comincio ad intravedere l’Arco d’ingresso che, salendo, ci porterà all’arrivo in piazza.
Quando ho cominciato tutto questo non sapevo se ce l’avrei fatta oppure no. Sono pronto? È la domanda che mi ha accompagnato per gli ultimi 86 chilometri. Ora davanti a me c’è l’ultima salita.
Il passato il presente e il futuro si mischiano diventando un tutt’uno. Ci sono io, giovane, che pedalo attraverso l’Appennino, non ho un filo di barba. Poi la strada comincia a salire, Strade Bianche atto finale. Pedalo sulle Alpi con i miei amici, pedalo attraverso tempeste di neve, attraverso deserti africani e mi arrampico su strade Croate a picco sul mare. Un giro di pedale ancora. Santa Caterina sale cattiva, ciclisti si arrendono e spingono le loro fedeli biciclette, non voglio mollare. Riccardo in discesa in Croazia cade speronato da un camion, Davide quasi assiderato viene aiutato da alcune persone a Moena, Umberto si rifugia in una grotta mentre fuori grandina. Ancora un giro di pedale Massi, puoi farcela. Ho sempre creduto che alla fine di ogni impresa la gente ci avrebbe osannati e puntualmente non c’era mai nessuno. Lo abbiamo fatto perché ci piace essere sopra le righe, perché siamo strani, perché siamo masochisti. Guardo la mia bicicletta Blu, quante storie ha da raccontare?!
Quella volta che in cima al Terminillo esplose letteralmente. Telaio rotto e bici da buttare. Ferro che si rompe e con esso il mio cuore. La saldo e la rimetto in strada con l’aiuto di persone che hanno a cuore quell’ammasso di ferro e gomma quasi fosse una persona. Quante storie avrà ancora da narrare. La guardo è lì con me, un altro giro di pedale. Massi puoi farcela. La gente intorno a me fa il tifo, l’arrivo che ho sempre sognato. Passato, presente e futuro. Un uomo e la sua bicicletta blu. Ultima rivoluzione e sono in cima. Le gambe mi fanno male, non sento più le mani per quanto ho stretto il manubrio. Ho dei lancinanti dolori al torace ma sono in cima.
La bici scivola veloce in discesa e dopo una curva a destra c’è l’arrivo della Gran Fondo Strade Bianche.
Sono partito tanti anni fa e non riesco ancora a rispondere alla più semplice delle domande:
“Perché lo fai?”
Pedalerò un altro po’ in cerca della risposta.
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