La fatica nel ciclismo è una questione soggettiva?

Cosa differenzia i campioni del ciclismo dagli amatori che non riescono a conseguire risultati? Se ci allenassimo tutti nello stesso modo, con le medesime tecnologie e programmi, otterremmo risultati identici?

Queste sono domande che mi pongo spesso, soprattutto sul tema della resistenza alla fatica e della capacità di sopportare la sensazione del corpo che grida “basta, fermati”. Ci sono ciclisti in grado di far fronte alla fatica in modo egregio e altri che invece sono incapaci di uscire dalla propria zona di comfort. Da cosa dipende?
fatica ciclismo
A livello fisiologico, la fatica è descritta come una riduzione della capacità del muscolo di generare tensione attraverso la sua stessa contrazione. Andando ancora più nel dettaglio, troviamo che la fatica ha due componenti principali: esiste infatti una fatica centrale e una periferica.

La fatica centrale riguarda “il centro di comando” dei muscoli, ovvero il sistema nervoso somatico, composto dal cervello, dal midollo spinale e dai motoneuroni (nervi che innervano le fibre muscolari). La fatica a livello periferico invece agisce sui muscoli e sulle fibre che li compongono, limitando la capacità contrattile dell’unità base del muscolo: il sarcomero.

Il ruolo cruciale della fatica centrale

Quale tra queste due tipologie di fatica è più importante e soprattutto ha un impatto sulla performance? Numerosi studiosi hanno voluto investigare questo aspetto. Uno studio particolarmente brutale, che mi ha incuriosito, è stato questo: dei runner sono stati costretti a correre su un tapis roulant per 24 ore di seguito. Prima e dopo la prestazione sono stati eseguiti esami del sangue, test di valutazione e biopsia muscolare. Al termine delle 24 ore i runner erano stremati e lamentavano un notevole affaticamento, soprattutto presentavano un grande RPE, ovvero un’elevata percezione di sforzo. Eppure la biopsia muscolare mostrava come a livello delle fibre muscolari poco di così devastante era successo. Di chi era quindi la colpa? Della fatica centrale, evidenzata a livello cerebrale.
Alcuni studi hanno visto come l’affaticamento di tipo centrale sia responsabile del cambio di attivazione muscolare anche in atleti esperti e di modifiche nella percezione e nelle capacità cognitive degli sportivi di endurance.
rodney soncco

La percezione di fatica è soggettiva

Dall’esperienza con i corsi di formazione in biomeccanica e allenamento e soprattutto grazie al fatto di essere il preparatore atletico di un ciclista come Rodney Soncco, ultracycler in grado di percorrere 1000km non stop in 46 ore, ho capito che la percezione di fatica è del tutto soggettiva. E lo è sopratutto per il fatto che il “collo di bottiglia” della prestazione è il grado di resistenza all’affaticamento centrale.

Perché il cervello, in sostanza, diventa un nemico e porta a ridurre la prestazione, anziché essere un alleato? Per il fatto che siamo programmati per sopravvivere e il cervello, quando effettuiamo una lunga prestazione, va in protezione, imponendoci di fermarci prima che avvengano danni muscolari.

Guillame Millet, uno studioso sugli effetti della fatica nell’ultrarunning, sostiene che la fatica centrale abbia svolto un ruolo chiave nella nostra evoluzione, perché ci ha permesso di fermarci e trovare riparo quando eravamo stanchi, anziché compiere migrazioni stremanti che ci avrebbero esposto ai predatori.

La chiave della prestazione nel ciclismo è questa: riuscire a vincere la sensazione di fatica. Con Rodney, per esempio, mi confronto molto su questo tema, perché è fondamentale il continuo dialogo tra chi stende le tabelle di allenamento e chi poi le deve pedalare.

Ho chiesto come faccia a distrarre la mente dalla necessità impellente di fermarsi, soprattutto dopo parecchie ore, quando la deprivazione di sonno porta ad avere le allucinazioni.

La sua risposta è semplice: “quando pedalo cerco di ricordarmi di sensazioni positive, ad esempio provo a immaginare il relax di quando ero alle terme o le cose che facevo quando ero a casa mia in Perù. Di notte però è più difficile, perché non si vede niente e i pensieri sono amplificati e la mancanza di un letto è forte. Allora in quel caso mi rifugio nella musica, immagino di ascoltare le mie canzoni preferite e non penso al pedalare“.
rodney soncco
Questa strategia è stata studiata anche dalla letteratura scientifica, che ha valutato come l’utilizzo di un pensiero positivo distraente sia una delle tecniche più funzionali per ridurre la sensazione di fatica. Dato che il cervello non può concentrarsi su due cose per volta, riuscire a forzare un pensiero estraneo e positivo permette di distrarre dalle emozioni negative legate all’affaticamento.

Questa tecnica, definita “del pensiero dissociativo” non è immediata e richiede esperienza. Cosa significa? Che va allenata lontano dalle gare, con sedute molto lunghe che provochino un considerevole affaticamento centrale, oppure attraverso un lavoro di interval training ad elevata intensità, associato a questo tipo di pensieri. Più l’atleta prenderà confidenza con questa tecnica, maggiormente saprà utilizzarla in gara. All’inizio saprà distrarsi dalle sensazioni di fatica solo per pochi secondi, per poi riuscire a portare il livello di tolleranza fino a una o più ore.

La fatica quindi è una componente soggettiva ma anche la resistenza a essa lo è. Cosa significa? Vuol dire che allenare esclusivamente il corpo a lavorare in condizioni di affaticamento (magari con sedute che vadano a stressare oltre la soglia anaerobica) non è sufficiente.

Con Rodney abbiamo avviato un lavoro parallelo, dove dovrà rivivere le sensazioni dell’affaticamento e qui poi provare a distrarre la mente, abituandosi a cullare pensieri positivi. Questo allenamento parallelo verrà poi valutato nella prossima gara, in Corsica, 700km con moltissimi chilometri di dislivello positivo e un grado di affaticamento decisamente elevato.

I ciclisti tendono a ridurre l’allenamento e la performance a una questione meramente di muscoli ma le evidenze scientifiche dicono il contrario. La fatica è soprattutto una questione mentale e soprattutto è molto soggettiva la risposta che si dà alle sensazioni di affaticamento.

Allenare i muscoli a resistere alla fatica non è l’unica soluzione, anzi è forse la meno produttiva. Bisogna allenarsi a tollerare la fatica a livello mentale, se si vuole davvero ottenere una performance adeguata.

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