Maurizio, un handbiker alternativo

Maurizio, un handbiker alternativo
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Chi abbia mai avuto la fortuna di assistere ad una gara di handbike, si sarà accorto che gli atleti coinvolti nella sfida, sono agguerriti come i ciclisti “veri”. Non è previsto l’accontentarsi della partecipazione, l’essere presenti solo per puro divertimento; sui visi tesi alla partenza si legge il desiderio di dare il proprio massimo, di battere il solito avversario ostico, di contribuire a far guadagnare punti alla propria squadra per la classifica generale. Nei lunghi rettilinei, nei rilanci dopo le curve, negli “strappetti” presenti nei circuiti da percorrere più volte, si notano i denti serrati, visi provati, muscoli tesi per cercare di limare pochi secondi o sfruttare l’errore dell’avversario per superarlo con un sorpasso al limite. Anche quando li si vede allenare, a volte muovendosi su strade da condividere con il traffico cittadino, non si riesce mai ad associare l’handbike ad un mezzo che non abbia una finalità sportiva o competitiva. Quale “pazzo” sarebbe disposto a simili disagi pur di riuscire ad allenarsi, se non una persona fortemente motivata al raggiungimento di un risultato sportivo di alto livello? Si è quindi portati a pensare l’handbike come un mezzo rivolto alla competizione, di certo non rilassante da usare. Eppure… eppure, non sempre è così.

Handbiker

Gareggiare con una handbike non è un’attività molto rilassante

Come visto nelle prime puntate a tema handbike, non esistono solo mezzi ultraleggeri, aerodinamici, in carbonio monoscocca, alti pochi centimetri da terra e che non permettono quasi di osservare il paesaggio circostante. Esistono anche mezzi turistici, più confortevoli e meno aggressivi. Oggi andremo a conoscere uno sportivo che ha deciso di usare la sua “bicicletta” quasi esclusivamente per viaggiare in autonomia e “solitaria”, trovando soluzioni molto interessanti per trasportare il proprio bagaglio e non dipendere da nessuno che non siano le proprie braccia, la propria testa e (sopratutto) la propria tenacia e forza di volontà.

Maurizio lo conosco da alcuni anni, potrei ormai definirlo un amico e, dopo aver visto che su Bikeitalia si inizia a parlare di handbike e sport per disabili, ha deciso di raccontare la sua esperienza, con la speranza di essere fonte di ispirazione per qualcuno, “normodotati o disabili” che siano. Maurizio ha deciso di raccontarsi con un’intervista; ci siamo trovati un pomeriggio dove io lavoro e dove lui presta servizio di volontario; era venuto a trovarmi da casa con la sua handbike, dicendomi che mi avrebbe mostrato un piccolo segreto. Se siete curiosi, proseguite a leggere…

Nome, età e provenienza: Mi chiamo Maurizio Antonini e ho anni 51, anche se non si direbbe…originario di Brescia, attualmente vivo in un paese della provincia, vicino al lago di Iseo.

Attualmente di cosa ti occupi? Sono impegnato con la società sportiva Active Sport Disabili, con la quale organizziamo il torneo internazionale di tennis in carrozzina a Brescia. Abbiamo la squadra di handbike che lo scorso anno ha vinto il titolo di campione del Giro d’Italia e io giro le scuole di Brescia e provincia, sensibilizzando i bambini e ragazzi sul tema dell’educazione stradale.

Handbiker

Maurizio, impegnato in una scuola primaria, per il progetto di educazione stradale di Active Sport

Quanti anni fa hai iniziato ad andare in handbike? Ho iniziato nel 2000, quindi ormai 17 anni fa. Ricordo che all’epoca ero uno dei primi e le biciclette che usavamo erano molto artigianali. Ognuno aveva un mezzo diverso dagli altri, frutto del lavoro di qualche artigiano che aveva iniziato a lavorare su questo tipo di mezzi. Erano pesanti ma a me sembravano stupende; avere la possibilità di scendere dalla carrozzina e muoversi con un mezzo diverso le faceva apparire fantastiche ai miei occhi.

Ma, se questo tipo di sport era quasi sconosciuto, cosa ti ha spinto ad iniziare ad usare la handbike? Ho sempre avuto la passione per i viaggi. La carrozzina per quanto possa essere comoda, non è certo il mezzo più indicato per compiere un viaggio. Vedere l’handbike per me è stato come aprire gli occhi su una nuova possibilità, quella di andare in luoghi distanti da casa, in poco tempo, senza usare un veicolo a motore. Mi considero uno spirito libero e la natura, le culture diverse, il conoscere nuove persone sono sempre stati una fonte di grande interesse.

Quindi spiegami meglio, hai fatto solo viaggi? Non hai mai fatto gare con l’handbike? I primi anni inevitabilmente si, ho fatto alcune gare. Ero giovane e la competizione tra noi primi “pionieri” di questo sport in Italia era comunque un bello stimolo. Ho sempre preferito però correre su distanze non brevi, prevalentemente quindi mezze maratone o maratone. La competizione sfrenata delle gare veloci non mi ha mai appassionato più di tanto.

Mi pare di capire quindi che ti piacesse fare le gare. Per quale motivo hai smesso, per dedicarti ad un uso più ricreativo? Hai capito bene. Il primo periodo era stato stimolante. Anche se i risultati non erano eccellenti, allenarsi per le gare era un modo per tenere impegnato corpo e mente. Poi, con il tempo, ho perso un po’ di passione perché gli allenamenti avevano iniziato a non essere compatibili con un altro sport che ho sempre praticato. In quel periodo giocavo anche a tennis e oltre alla parte “fisica” della prestazione, dovevo allenare in modo importante anche la tecnica. Facevo tornei sia in Italia che all’estero, il tempo per fare tutto iniziava ad essere risicato e quindi ho dovuto prendere la decisione. Mi sarei dedicato in modo serio al tennis e avrei usato la bicicletta per andare in vacanza, senza più alcuna velleità competitiva.

Quanti viaggi per vacanza hai compiuto con la handbike? I primi periodi non avevo ancora colto tutte le potenzialità del mezzo. Infatti portavo con me l’handbike caricandola sulla mia auto, raggiungendo poi i luoghi di villeggiatura ed usandola per visitare le zone limitrofe, con ritorno sempre alla “base” ogni giorno. Poi qualche anno fa, durante una vacanza in Val Venosta, nella zona del lago di Resia, quello con il famoso campanile che ricorda il villaggio sommerso per fare posto alla diga, c’è stata la svolta. Ero in vacanza con dei miei familiari e avevamo organizzato una escursione sulla bella ciclabile della Val Venosta, che parte proprio dal lago. Nel gruppo c’era anche il mio piccolo nipotino e nessuno si era ricordato di munire una delle biciclette del solito seggiolino per bambini; per una strana coincidenza, 15 giorni prima della vacanza avevo fatto costruire a mio cognato, di professione tornitore, un sistema ideato appositamente da noi, per agganciare la mia carrozzina alla handbike. In precedenza mi capitava infatti spesso di non poter fare altro che rimanere sulla mia bicicletta anche nelle pause o quando raggiungevo le mie mete. Se mi fossi dotato della carrozzina sarei invece potuto scendere muovendomi più liberamente per entrare in un bar, o accedere a zone altrimenti fuori dalla mia portata. Visto che la carrozzina le ruote le ha, la cosa migliore era trovare il modo per trainarla, facendola appoggiare sulle due ruote posteriori. E abbiamo creato questo sistema. Quel giorno abbiamo messo quindi il piccolo sulla carrozzina, legandolo con delle cinghie recuperate sul posto e abbiamo potuto completare l’escursione. Da quell’esperienza è nata l’idea di trainare nei miei viaggi la carrozzina, usandola come carrello per trasportare i miei bagagli. Inizialmente i bagagli erano il necessario per essere autonomo 1 o 2 giorni, che si sono trasformati poi in settimane nel corso degli anni. Ad oggi, i viaggi di più giorni che ho intrapreso sono tre: nel 2014 il battesimo del fuoco con Santiago di Compostela, un classico, circa 900 km. L’anno dopo, nel 2015, con partenza da Brescia mi sono mosso in direzione Ventimiglia, macinando circa 450 km. La scorsa estate, nel 2016 ho fatto un tratto della Via Francigena ed il contachilometri ha segnato circa 500 km.

Handbiker

Maurizio con la sua handbike, davanti alla cattedrale di Santiago de Compostela (Spagna)

Magari, chi non ha mai avuto a che fare con una persona disabile può pensare che, tutto sommato, i chilometraggi non siano così sensazionali; tu cosa diresti? In effetti non ho fatto viaggi lunghissimi, ma ti assicuro che viaggiando da solo i problemi e le difficoltà si moltiplicano esponenzialmente.

Hai detto da solo? Non avevo colto il particolare. Vuoi dire che in questi 3 lunghi viaggi eri completamente solo, senza alcun accompagnatore, senza un’auto o un furgone di supporto? Esatto, la mia scelta era quella di essere completamente autonomo. Tutto dove stare sul mio carrello-carrozzina e non volevo dipendere da nessuno. Erano viaggi, ma erano anche una sfida con me stesso, per vincere la pigrizia alla quale ci si abbandona nella nostra vita quotidiana. Forse la “pazzia” è stata andare all’estero per il primo viaggio e percorrere 900 km senza conoscere lo spagnolo e sperando di non avere bisogno di cure sanitarie particolari. Come ben sai, per noi paraplegici, la difficoltà a termoregolare il nostro corpo, potrebbe essere un problema se si compiono sforzi sotto il sole.

Quando si viaggia in autonomia con la handbike, qual’è la difficoltà maggiore da affrontare? Spesso chi cammina, chi si sposta con le gambe non se ne rende conto ma, per noi in carrozzina, trovare posti di accoglienza accessibili è nettamente la cosa più complessa. Anche solo due gradini da superare possono fare la differenza. Un bagno con la porta troppo stretta per entrare, significa non potersi lavare per quella giornata, cose scontate per i bipedi sono ostacoli quasi insormontabili per noi. Anche riempire una borraccia di acqua a volte è stato un problema, ma con l’aiuto di qualcuno si risolveva velocemente.

Visto che hai provato entrambe le esperienze, hai riscontrato maggiori difficoltà nei viaggi all’estero, o nei viaggi in Italia? Per quel che ho vissuto io, ho trovato difficoltà sia all’estero che in Italia. Per mia scelta mi appoggio sempre a strutture ricettive economiche e bisogna ammettere che oltre il confine gli ostelli sono più numerosi che da noi. Forse è dovuto al fatto che il Cammino di Santiago è una realtà consolidata, ma questa è stata la mia impressione.

Quale è stato il viaggio che rifaresti domani, avendo tempo e possibilità? Il primo amore non si scorda mai. Sicuramente il cammino di Santiago, anzi El Camino, magari facendo quello del Nord visto che ho fatto il francese, passando al centro della Spagna.

Alla fine queste esperienze le hai fatte in questo modo, perché hai visto che era possibile caricare in modo stabile e sicuro la carrozzina quel giorno a Resia. Quante prove e modifiche hai dovuto fare al tuo sistema di aggancio e traino, per essere sicuro di non perdere il bagaglio? Potresti non crederci ma già al primo colpo andava bene. La progettazione era stata molto precisa e dettagliata. Abbiamo solo aggiunto alcune piccole modifiche per ottimizzare il tutto, ma l’idea iniziale era già ottima.

La carrozzina, con le modifiche apportate, per renderla trainabile dalla handbike

La carrozzina, con le modifiche apportate, per renderla trainabile dalla handbike

Quale è la reazione delle persone, quando ti vedono passare da solo, con la handbike che traina un carrello “alternativo”? La prima reazione è sempre la stessa: non capiscono che mezzo di trasporto sia, pensano sia un mezzo motorizzato e non spinto dalle braccia. Poi però, quando i meno timidi mi fermano e chiedono, io gli spiego e vedo sempre lo stupore sui loro volti, forse sono colpiti dal fatto che io sia in viaggio in solitaria. La maggior parte mi vuole fotografare, si complimentano con me e, se sono pure loro dei viaggiatori a piedi o in bici, io mi complimento con loro per la tenacia e perseveranza che hanno nell’affrontare un viaggio con il solo aiuto della resistenza fisica e mentale. Alla fine si crea empatia, perché siamo tutti in cammino verso una meta, nella stessa condizione.

Voglio chiudere questa chiacchierata chiedendoti perché un disabile dovrebbe iniziare ad usare l’handbike e qual è l’errore che non dovrebbe fare. Ti rispondo per la mia esperienza, non è detto che la risposta sia valida per tutti. Io credo che lo dovrebbe fare perché si sentirebbe libero di respirare e di restare con se stesso, traendo una soddisfazione immensa da ogni piccola difficoltà superata senza l’aiuto di nessuno. L’errore da non fare credo sia invece quello di arrendersi e pensare di non esistere più perché si perdono gli obiettivi e le abitudini che, fino al giorno prima, caratterizzavano la nostra vita. Una persona che subisce un danno invalidante fisico permanente, dovrebbe arrivare ad accettarsi e convivere con il nuovo se stesso; cosi facendo non avrebbe qualcosa di irrisolto che lo tormenti da dentro. L’handbike come un modo per proseguire la vita “normalmente”.

Ringrazio Maurizio per la disponibilità a raccontarsi e a mostrare la sua “invenzione” anche ai lettori di Bikeitalia.