La bellezza di una strada di città senz’auto, libera dal traffico motorizzato e con aria pulita, è indiscutibile e assoluta: piace a tutti, come sanno i creativi delle pubblicità di automobili che fanno di tutto per spingere il loro prodotto stando ben attenti a non rappresentare caos, smog e ingorghi stradali. Quelli sono “danni collaterali” compresi nel prezzo, di cui si accorgerà ben presto il nuovo acquirente, che con il suo acquisto contribuirà a creare le condizioni per produrre traffico e inquinamento: proprio ciò da cui vorrebbe fuggire lontano, per ironia della sorte, a bordo della sua auto.
E così gli spot-a-motore – onnipresenti e pervasivi, perché la lobby dell’auto spende molto in campagne pubblicitarie – sono un concentrato di situazioni ai confini della realtà: l’auto protagonista si muove senza intoppi su strade senza buche e senza alcun tipo di imprevisto. Nonostante l’esistenza di un codice di autodisciplina pubblicitaria la rappresentazione dell’auto sembra essere esente da una qualsiasi aderenza con la realtà: si punta a magnificare le prestazioni del motore (e non i limiti di velocità, non sia mai!), si proiettano corse degne di una gara di Formula 1 in strade urbane (e bisogna fare molta attenzione per riuscire a leggere la microscopica scritta in sovrimpressione “filmato realizzato in circuito chiuso da piloti professionisti: non imitare), i mezzi vengono rappresentati come rispettosi dell’ambiente (e abbiamo visto tutti che cosa è venuto fuori dallo scandalo emissioni che ha coinvolto la Volkswagen e non solo).
Le città rinascono senz’auto: non è un’affermazione utopistica, ma la constatazione che dove si è deciso di cambiare paradigma di trasporto, favorendo i mezzi pubblici e incentivando realmente la popolazione ad andare a piedi e in bicicletta la vivibilità è nettamente migliorata. Forse non tutti sanno che Danimarca e Olanda non sono sempre state il paradiso delle bici: hanno semplicemente capito prima degli altri che puntare sull’automobile avrebbe soltanto peggiorato la vivibilità delle strade e dell’ambiente e hanno scelto di cambiare paradigma già negli Anni Settanta.
In Italia, invece, è successo esattamente il contrario: fin dal boom economico degli Anni Sessanta il possesso di un’auto è stato visto come uno status symbol e le politiche del trasporto sono state plasmate a uso e consumo degli automobilisti ma soprattutto del principale produttore nazionale di automobili, la Fiat, che per decenni ha goduto di sovvenzioni statali in un mercato protetto e in continua crescita. L’auto come sinonimo di libertà è una tra le più grandi mistificazioni che si possano concepire: se c’è un mezzo che ti rende schiavo questo è proprio l’automobile, come sanno quelli che la usano e soprattutto quelli che non la usano più.
Negli ultimi anni anche nel nostro Paese ci sono stati tanti piccoli segnali deboli che, messi insieme, potrebbero essere l’avvisaglia di qualcosa di più serio e organico: nel 2011 per la prima volta dal Dopoguerra la vendita delle bici ha superato quella delle auto, c’è un rinnovato interesse per l’ambiente e la vivibilità delle strade da parte dei cittadini e anche la politica sembra aver capito che il modello si sviluppo “senz’auto” non è solo possibile ma anche auspicabile. All’orizzonte ci sono le elezioni comunali nelle grandi città d’Italia che in primavera eleggeranno i propri sindaci: è tempo che la mobilità nuova entri nell’agenda politica dei candidati a sindaco e poi nei piani di sviluppo urbanistici di chi sarà eletto. È un’occasione troppo importante per il futuro di tutti.
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