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Placemaking e urbanismo tattico: analogie e differenze

Il Placemaking è un approccio multifunzionale alla pianificazione e alla gestione degli spazi pubblici.  Ha il compito di promuovere, ispirare e creare spazi che siano salutari per le persone, che le renda felici di passare il loro tempo in un dato luogo. Il Placemaking è sia un processo che una filosofia di progettazione.

Forse potremmo utilizzare il termine Placemaking al posto di Tactical Urbanism, probabilmente sono solo lievi differenze che ci fanno optare per un termine piuttosto che l’altro. Inaffti, l’urbanismo tattico può considerarsi come un nuovo modo per definire qualcosa che è già presente da tempo nelle politiche delle città medio-grandi e nei comportamenti dei cittadini stessi.
Se pensiamo a termini come Placemaking, Guerrilla Urbanism, Pop-up Urbanism o ancora Tactical Urbanism pensiamo a movimenti e approcci progettuali che hanno molti aspetti in comune tra loro (Alberti, Rizzo & Scamporrino, 2016, p. 16).

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Le origini del termine

Il Placemaking nasce nel 1960, quando Jane Jacobs e William Whyte cominciarono a ragionare in termini rivoluzionari: secondo i due urbanisti le città dovevano anzitutto adattarsi alle persone, non solo alle automobili o alla presenza dei centri commerciali. Quando Jacobs (1960) scrisse “Vita e morte delle grandi città americane”, cambiò radicalmente il modo in cui oggi pensiamo all’idea di vivibilità nell’ambiente costruito, anche attraverso il concetto degli “occhi sulla strada”.

La strada deve essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada che accoglie sia estranei che residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada stessa; non è ammissibile che questi lascino la via priva di affacci, volgendo verso di essa la
facciata posteriore o i lati ciechi.Tutti sanno che una strada urbana frequentata è probabilmente più sicura di una strada urbana deserta.” (Jacobs, 1960, p. 32)

Il termine Placemaking entrò nel dizionario di architetti e urbanisti solo qualche anno dopo la pubblicazione del libro di Jacobs. Ancora oggi viene utilizzato per descrivere un processo per la creazione di piazze, parchi, strade e luoghi pubblici capaci di generare attrattività nelle persone perchè piacevolmente interessati a vivere quegli spazi.
Jan Gehl (2010) sostiene: “Prime le persone, dopo lo spazio pubblico e solo infine gli edifici, la procedura contraria non funziona mai”.

La componente pubblica delle nostre vite, intesa come “vivere lo spazio collettivo” sta scomparendo.
È di fondamentale importanza rendere le città invitanti, così da poter incontrare i nostri concittadini faccia a faccia e sperimentare la vita pubblica in spazi aperti di buona qualità.  Questo aspetto è di fondamentale importanza in una vita democratica.

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Il Placemaking inoltre, ispira le persone a reimmaginare collettivamente e a reinventare lo spazio pubblico che li circonda e che rappresenta il cuore pulsante di ogni comunità locale.
Rafforzando la connessione tra le persone e i luoghi che condividono, la creazione di spazi si rifà a un processo collaborativo attraverso il quale possiamo modellare la nostra sfera pubblica al fine di massimizzarne il valore per la collettività.

Oltre a promuovere una migliore progettazione urbana, il Placemaking facilita i modelli di utilizzo creativi, prestando particolare attenzione alle identità fisiche, culturali e sociali che definiscono un luogo e ne supportano la sua evoluzione nel tempo.

Project for Public Spaces (PPS) definisce il fulcro centrale del Placemaking nel “collegamento tra le persone e le idee, le risorse, le competenze e i partner che vedono lo spazio pubblico come la chiave per affrontare le nostre più grandi sfide”.

PPS ha redatto 11 principi di Placemaking, offrendo così delle linee guida per aiutare le comunità a integrare diverse opinioni in una visione comune e coesa.

Cosa differenzia quindi il Tactical Urbanism dal Placemaking?

Probabilmente i due termini hanno più aspetti in comune che differenze. Tuttavia quando si parla di Placemaking non si tratta mai di iniziative top-down, cosa che invece può accadere nell’urbanismo tattico.
Quest’ultimo infatti può essere uno strumento utilizzato dal governo locale oltre che dalle associazioni e dai semplici cittadini per sviluppare e testare idee prima di progetti esecutivi (Angelastro, Calace & Cariello, 2016, p. 24).

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Se c’è quindi un aspetto che differenzia l’urbanismo tattico da altre pratiche è proprio la duplice matrice originaria dell’iniziativa (bottom-up o top-down), oltre che la sua intrinseca dimensione tattica.

Le corsie ciclabili disegnate di notte da alcuni attivisti sono considerate un’azione di Tactical Urbanism quanto l’idea del Dipartimento dei Trasporti di New York guidato da Janette Sadik Khan (2016) di riempire Times Square di sedie in plastica colorate.

Per approfondire scarica gratuitamente la tesi di laurea in formato e-book “Tactical Urbanism: la sperimentazione come forma di apprendimento collettivo”

Commenti

  1. Avatar Maurizio Lombardo ha detto:

    E’ arrivato il momento di di analizzare la questiona con fredda logica.
    Io sono un automobilista-ciclista, a essere sincero più ciclista, ma la questione è semplice ,dobbiamo dividere gli spazi al fine di eliminare quella tensione che si ha nell’affrontarci quotidianamente nella giungla d’asfalto.
    da ciclista mi piacerebbe avere sicurezza e libertà di movimento in città ma anche fuori, ma il vantaggio maggiore l’avrebbero gli automobilisti.
    Tutte le mattine, recandoci sul posto di lavoro, ci ritroviamo in eterne code nel traffico congestionato, e poi immaginate se solo la metà degli automobilisti che ci circondano non esistessero perchè possibilitati ad andare in bici.
    La circolazione sarebbe più fluida e arrivato a destinazione trovare facilmente parcheggio,visto che 20 ciclisti parcheggiano nello spazio di 2 automobili; e quanto ne gioverebbe il commercio al dettaglio del negoziante che affaccia su strade trafficate e che dall’auto non noti neppure perchè troppo preso dal traffico oppure lo noti vorresti fermarti ma non c’è parcheggio..
    noi ciclisti in citta ce la caviamo sempre, non sono mai , eribadisco, mai arrivato in ritardo al lavoro in bici, troviamo sempre un’alternativa, siamo noi automobilisti a trarre maggiore beneficio dalla realizzazione di un mobilità sostenibile.
    in città il limite di velocità è di 50 KMH ma si procede ad una media di 16 KMH no sarebbe meglio 30KMH costanti?….
    Spero che questa mia riflessione possa evolversi e maturare in qualcosa di costruttivo.

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