Cycling as medicine: la bici è una medicina?

Cycling as medicine: la bici è una medicina?

ciclismo medicina

Vengo da una famiglia di cardiopatici. Nella mia storia familiare poche persone sono rimaste immuni alle malattie cardiache. Mio papà ha avuto l’infarto, uno zio è morto di arresto cardiaco, un altro di complicazioni coronariche per il diabete. I nonni erano cardiopatici e così molte altre persone all’interno della cerchia familiare. Questo fa di me una persona con una notevole familiarità con le patologie a carico del cuore e questa cosa, passati i 30 anni, è un aspetto importante della mia vita. Al momento, a parte un evento di extrasistole totalmente benigno, il mio cuore è in gran forma. Ma per evitare problemi ogni anno mi sottopongo a un esame cardiologico completo, che include: ECG di cuore e arterie, esame cardiaco a riposo e sottosforzo, rilevazione della pressione e valutazione con il cardiologo. Ogni anno la visita si conclude con il medico che dice più o meno così: “Lei va in bici? Continui”.

Data la mia particolare predisposizione, da sempre sono affascinato dagli effetti che il ciclismo (inteso come “usare la bici” in senso lato, non in senso sportivo) ha sulla salute, sul benessere e sul trattamento delle patologie legate alla sedentarietà. Ho chiamato questa mia attività di ricerca “cycling as medicine”. Ho letto più di 250 studi scientifici e ho contattato numerosi ricercatori, con i quali ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere sul tema. E’ possibile considerare il ciclismo come una medicina?

Partiamo da esempi pratici. In Brasile c’è una ricercatrice, il cui nome è Ivana Moraes-Silva, che ha applicato i concetti dell’attività aerobica al trattamento dell’ipertensione. I benefici dell’attività aerobica sull’apparato circolatorio sono ormai conosciuti: quando iniziamo a mettere sotto sforzo il corpo, quest’ultimo attiva degli aggiustamenti per mantenere l’omeostasi. Il cuore inizia a pompare più sangue, poiché la richiesta di sangue dei muscoli arriva fino all’88% del volume totale. Per farlo aumenta la sua frequenza cardiaca (poiché il volume di sangue è fisso). I polmoni lavorano di più, per aumentare ritmo e profondità della respirazione, dato che il consumo di ossigeno da parte del muscolo (l’ossigeno è fondamentale per la sintesi dell’ATP, la moneta energetica delle cellule muscolari) aumenta fino a 60 volte. Le arterie aumentano il loro calibro per permettere il deflusso del volume di sangue aumentato. Il sistema nervoso incrementa il numero di impulsi motori ai muscoli, vengono rilasciati nel sangue ormoni come l’ADH, che ha il compito di aumentare l’assorbimento dell’acqua nei reni (per via dell’aumentata sudorazione) o come l’insulina, che favorisce l’incremento della glicemia sanguigna andando a colpire le riserve di grassi corporee, alle quali sono sempre correlate delle riserve di zuccheri. Questi aggiustamenti momentanei producono uno stress a livello del nostro organismo, che nelle ore successive attiva la supercompensazione, ovvero modella la propria struttura affinché possa sostenere in modo più efficiente i futuri sforzi fisici. La ripetizione costante di attività aerobica fa sì che questi aggiustamenti momentanei si strutturino con degli adattamenti cronici nell’organismo.

Se ritorniamo all’attività della dottoressa Moraes-Silva, capiamo come si possano sfruttare questi benefici non solo per l’attività sportiva ma come medium per andare a trattare delle patologie specifiche. L’ipertensione arteriosa è una patologia silente (non ce ne accorgiamo) ma molto pericolosa. Si stima che il 40% degli italiani con più di 50 anni ne soffra. Si è ipertesi quando la pressione sistolica supera i 140mmHg e quella diastolica i 90mmHg, mentre si è normotesi quando i precedenti valori si attestano intorno ai 120-80mmHg. Partendo dalla fisiologia dell’attività aerobica si può capire come gli aggiustamenti a livello dell’apparato cardiologico possano influenzare la struttura dei vasi e la pressione, regolandone l’attività anche a riposo. Il ciclismo è stato scelto perché è un’attività stabile, che permette di monitorare costantemente la pressione arteriosa, i battiti del cuore e la saturazione. I pazienti della dottoressa Moares-Silva mostrano un miglioramento di 10mmHg dopo 3 mesi di attività.

Ma non si sta parlando solo di attività fisica adattata, pensata e somministrata da personale medico in laboratori e palestre. Stiamo parlando della realtà di tutti i giorni. Vi do un’indicazione temporale: 8 settimane. Questo il tempo necessario per aumentare il VO2max del 15% e ridurre la massa grassa dell’8%. In sostanza per diventare più in forma e dimagrire. 40 minuti al giorno, alla velocità di 15km/h, 5 giorni a settimana. È il risultato di un esperimento danese su 1000 dipendenti di un’azienda pubblica, che sono stati invitati ad andare al lavoro in bici per 8 settimane di fila. Magari per gli amatori evoluti queste considerazioni possono sembrare banali ma per persone sedentarie hanno un grande effetto: si può diventare più sani ed essere più in forma senza fare sport e soprattutto senza rubare tempo alla famiglia ma solo convertendo un’abitudine.

Il fatto che la bici sia uno sport privo d’impatti diretti è un aspetto che salvaguardia le articolazioni e ben si presta per lavorare con le persone obese o sovrappeso, che devono limitare i sovraccarichi sulle articolazioni già provate dai chili in esubero da portare in giro ogni giorno. Dato che un’attività aerobica prolungata favorisce il consumo di grassi come fonte energetica per la sintesi dell’ATP, l’uso della bici si presta in modo importante per il trattamento delle patologie dismetaboliche e per il sovrappeso.

Inoltre gli adattamenti cronici che l’attività fisica in bicicletta apporta, producono benefici a lunghissimo termine, anche molti anni dopo. Uno studio danese invece ha coinvolto 15mila volontari per 20 anni. Per prima cosa, in un periodo di 4 anni tra il 1993 e il 1997, sono state analizzate le modalità di trasporto quotidiano dei soggetti. Dopodiché le condizioni di salute dei soggetti sono state monitorate con cadenza annuale fino al 2013. Dall’analisi statistica è emerso che le persone che avevano incluso il ciclismo (anche ricreazionale o solo come mezzo di trasporto) nella loro vita quotidiana, almeno 60 minuti a settimana, avevano vissuto più in salute la terza età, vivendo più a lungo di quelli che invece si muovevano in auto. In pazienti affetti da ansia e disturbi dell’umore, è stato visto che 30 minuti di utilizzo della bici al giorno per recarsi e tornare al luogo di lavoro erano sufficienti per ottenere una sensibile riduzione dell’incidenza degli attacchi di panico. In un altro studio è stato analizzato l’impatto del bike to work sulla percezione di stress lavorativo. I soggetti hanno compilato un questionario per comprendere la loro percezione stressante rispetto al lavoro svolto. Dopodiché è stato chiesto loro di utilizzare la bici come mezzo per recarsi al lavoro, dividendoli in due gruppi: un gruppo doveva effettuare almeno 30 minuti al giorno, il secondo almeno 45 minuti. Al termine del test sono stati rivalutati i questionari dei soggetti. E’ stato visto che in media era sufficiente un aumento di 5,3minuti di pedalate al giorno per ottenere una riduzione significativa dello stress percepito dai soggetti.

E se davvero la bici si può considerare una medicina, quale dovrebbe essere il suo dosaggio? Per ottenere dei benefici a lungo termine dovremmo assumere questo farmaco per 30 minuti al giorno, a intensità moderata (che ci permetta di parlare mentre pedaliamo). Per chi volesse aumentare la posologia, può arrivare a effettuare 150 minuti a settimana a intensità moderata e 60 minuti a intensità elevata (che non permetta di parlare mentre si sta pedalando). In ogni caso anche l’applicazione dell’esercizio fisico in bicicletta deve essere monitorato e programmato da un tecnico competente. almeno laureato in scienze motorie adattate (laurea magistrale).
Se davvero la bici è un farmaco, perché lo Stato non la prescrive? Perché in un paese vecchio, stanco e immobile, con un’obesità infantile galoppante, dove ogni anno si spendono 639 milioni di euro solo per trattare le patologie direttamente legate all’ipocinesi, lo Stato non favorisce la diffusione della bicicletta come mezzo per la prevenzione e il trattamento di tali patologie? Di studi sui benefici economici di tali applicazioni è pieno il mondo (e basta chiederceli). Perché non è possibile per un medico prescrivere l’attività fisica in bici, come invece possono  fare i medici di base scozzesi?
E’ una domanda che rivolgo al Ministro della Salute: perché non iniziamo a parlare di cycling as medicine?

Commenti

  1. fabio ha detto:

    Per quanto possa esser strano, tanto è comune il quadro descritto tanto mi viene domandare se queste nostre predisposizioni a tali patologie siano imputabili alla genetica ereditaria oppure al benessere diffuso degli ultimi decenni. Ma più che come prescrizione medica l’uso deve essere promosso come valido mezzo di autonomia allo spostamento sin dall’infanzia, seppur abitiamo in contesti che spesso non considerano la bicicletta come utente della strada (e men che mai il ciclista). Chi adotta uno stile di vita più sano nell’alimentazione con il giusto movimento fisico sicuramente corre minor probabilità di sviluppare tali patologie

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