Cosa ci spinge a sottoporci a tutto questo? E con “tutto questo” intendo la fatica, il sudore, la sofferenza, la privazione, la costanza dell’allenamento. Tutto quello che ci spinge fuori dalla nostra bolla ogni volta che saliamo in bici. E soprattutto: perché lo facciamo e molte altre persone no? Cosa ci differenzia? In questo articolo voglio indagare la motivazione che ci spinge a sottoporci a tutto questo.
“Omar, perché fai tutta questa fatica?”
A 17 anni sono salito per la prima volta su un ring e ho incrociato i guantoni con un avversario. A maggio di quell’anno (era il 2002), sono arrivato in finale ai campionati italiani. Ricordo benissimo la tensione, l’adrenalina, le braccia pesanti e la voce del mio maestro: “Omar, tieni su quella c…o di guardia!”. Non ho visto partire il calcio dell’avversario, che ha portato la sua tibia a sbattere contro la mia tempia. E d’improvviso nella mia testa tutto si è fatto bianco e poi nero e silenzioso.


A 25 anni ho messo sulle spalle uno zaino da trekking e ho camminato lungo gli 813km che separano Saint Jean Pied de Port e Santiago de Compostela, coprendo la distanza in 31 giorni. Giorni freddi, caldi, di sole, di pioggia e di vesciche e dolori muscoli e fatica e disperazione e gioia.


A 33 anni ho preso la mia MTB e sono partito da Bologna alle 6:00, imboccando la salita che porta a Sasso Marconi. Ho pedalato l’intera via degli Dei in due giorni, sotto il sole di Luglio, arrivando a Firenze con 48° percepiti, completamente svuotato di liquidi e forze, con più di 7000 kcal di energia spesa al giorno.


A 35 anni ho partecipato alla mia prima ultrarace in montagna. 46km di sali e scendi su per le montagne del triangolo Lariano (4 cime da scalare), coperti in 6 ore e 36 minuti.
A 38 anni ho riallacciato una cintura attorno alla vita. Era una cintura bianca che reggeva il mio judogi nuovo di zecca. Sono risalito sul tatami e ho imparato a cadere, a proiettare ed essere proiettato, ad afferrare il judogi del compagno nel randori e a cercare di non mollare la presa. Sono tornato a casa con lividi, tibie annerite dai colpi, muscoli indolenziti.
La domanda che molte persone mi fanno, quando racconto queste cose è: “Perché? Ma chi te lo fa fare?”. E spesso me lo chiedo anche io: “Cosa ci spinge a sottoporci a tutto questo?”.
Cosa ci spinge a sottoporci a tutto questo?
Esistono due tipi di motivazione: estrinseca ed intrinseca. La prima è legata all’apprezzamento esterno, al raggiungimento di risultati o di guadagno. La seconda è legata a una pulsione interna che si prova nel fare ciò che si fa. La seconda, studi alla mano, è quella che permette a chiunque di sottoporsi ad allenamenti estenuanti senza perdersi d’animo, a rialzarsi dopo ogni caduta, a riprendersi dopo gli infortuni. Ma non è solo una questione di motivazione.


Nel libro “Why we figth (a man search for a meaning in the cage)”, viene riportata una frase di Bruce Lee che mi è sempre parsa molto interessante: “il mio obiettivo è esprimermi come essere umano”. Mi piace per un semplice motivo: che non ha bisogno di spiegazioni. Perché non si basa sulla motivazione, sul desiderio di piacere agli altri, sulla necessità di dimagrire o di tornare in forma sulla base di presupposti esterni o per ottenere approvazione sociale. Si basa su un desiderio innato: quello di esprimersi con il movimento del corpo.
Come il biologo evoluzionista Daniel Liberman racconta nel suo libro “la storia del corpo umano”, il cervello degli ominidi nella savana era strutturato esclusivamente per il movimento. Il pensiero analitico, razionale, la gestione delle emozioni, tutto quello è arrivato successivamente, quando la dieta dell’homo è migliorata grazie alla caccia e alla scoperta del fuoco, permettendo ai nostri antenati di sviluppare le caratteristiche che ci rendono umani. Ma in origine l’intero sistema nervoso era deputato a una singola funzione: farci muovere e fornirci lo stimolo per farlo.
Tale pulsione è rimasta cablata nel nostro essere in tutti questi milioni di anni ed è questa la reale motivazione che ci porta a sottoporci a tutto questo: il desiderio innato di esprimerci e vivere attraverso il movimento del nostro corpo.
La domanda allora è la seguente: se tale pulsione è innata in noi, perché noi la sentiamo portarci a sottoporci a tutto questo mentre la maggior parte delle persone rifugge dall’idea della fatica? Perché, nonostante nel profondo del nostro sistema nervoso il movimento sia qualcosa di istintivo (basta lasciare un bambino da solo in una stanza senza telefono e vedrete cosa combina), il 50% degli italiani è da considerarsi cronicamente sedentario?
Trovare un significato alla sofferenza
Viktor Frankl era uno psichiatra austriaco di origine ebraica. Durante la Seconda Guerra Mondiale lui e la sua famiglia sono stati deportati ad Auschwitz. Al termine della guerra, lui era l’unico superstite della sua famiglia. L’esperienza all’interno del campo di concentramento e la sua preparazione come psichiatra lo hanno portato a chiedersi perché alcune persone riuscivano a sopravvivere a quell’inferno mentre altre si lasciavano andare e morivano?
Diventa un Ciclista Più Forte
Percorri più chilometri con meno fatica con solo un’ora di allenamento a settimana.
Nel suo libro “L’uomo in cerca di senso”, Frankl afferma che vi siano state due specifiche risposte cognitive ad avere reso alcune persone capaci di sopportare una tale situazione:
- Trovare il senso del controllo: Frankl ricorda un episodio dei primi giorni ad Auschwitz. Un prigioniero gli si è avvicinato e gli ha detto “vuoi sopravvivere qui dentro? Fatti la barba e cammina ben eretto”. Frankl, da psichiatra, comprese bene il significato di quelle parole. Lo scopo del farsi la barba e camminare eretto stava nel senso del controllo. Nel libro “Do Hard Things”, il coach di atletica Steve Magness parla di una condizione di apatia che viene chiamata “Give-up-itis”. Quando perdiamo il senso di controllo delle nostre vite ci arrendiamo e scivoliamo nell’apatia. L’attività fisica è uno strumento per riprendere il senso di controllo, poiché siamo noi che si sottoponiamo volontariamente alla fatica controllata per ottenere un miglioramento delle nostre prestazioni;
- Dare un significato alla sofferenza: un altro concetto che Frankl sottolinea è quello del riuscire a dare un significato alla sofferenza che stiamo provando, come nel libro di Cameron “Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile”. Ed è questo che differenzia lo sportivo dal sedentario, l’aver dato un significato alla sofferenza. Non sempre è una cosa positiva, si pensi all’agonista che arriva a doparsi pur di gareggiare o al ciclista che nasconde il motorino pur di vincere un Kom su strava. Ma a parte questi casi, la grande differenza sta tutta qui. E qui risiedono tutti i “Perché?”, “Ma chi te lo fa fare?”, “Ma come fai?”, “Ma tu sei matto”, che mi sono sentito dire continuamente in questi anni. Chi pone queste domande lo fa perché non riesce a dare un significato concreto alla sofferenza che proviamo quando ci sottoponiamo a tutto questo.
Qual è il significato che ci spinge a sottoporci a tutto questo?
Da parte mia posso dire che il significato che do alla sofferenza e che mi spinge ad allenare la forza ogni mattina per 15 minuti, ad andare tutti i giorni al lavoro in bici, a salire sul tatami la sera, è racchiuso nella frase “rinforzare il corpo, addestrare la mente ed elevare lo spirito”. Io sento il bisogno fisico di muovermi e di migliorare attraverso l’esposizione continua a fatiche o situazioni più grandi di me. Lo stesso varrà per te che leggi questo articolo, anche tu avrai la tua motivazione ma soprattutto avrai inconsciamente dato un significato alla sofferenza che ci spinge a sottoporci a tutto questo.
E, nel mio modesto parere, questo è ciò che dovremmo fare tutti per contrastare l’epidemia di obesità e sedentarietà che si sta diffondendo nella nostra società moderna. Dobbiamo smetterla di raccontare l’attività fisica con i termini di sacrificio, di competizione, di sudore e fatica e iniziare a porre una domanda semplice: “Che significato vuoi dare alla sofferenza che dovrai affrontare quando salirai in bici e inizierai a pedalare?”.
E la risposta potrebbe essere: “Perché grazie a questo potrò tornare ad avere il controllo sulla mia vita e cominciare ad esprimermi”.