Quelli che vivono a Copenhagen
Andarsene in giro per Copenhagen significa anche fare i conti con una popolazione diversa da quella che sei abituato a vedere a casa. Stando ai nostri stereotipi, gli abitanti delle regioni scandinave sono tutti alti biondi e con gli occhi azzurri.
Poi però inforchi la bicicletta, ti muovi tra le varie arterie e stradine e ti rendi conto che lo stereotipo che ti sei portato dall’Italia appartiene a una realtà che non esiste più, o per lo meno non esiste più a Copenhagen.
Copenhagen oggi rappresenta un crogiolo di razze e culture differenti che, a differenza di quanto si sbraita in Italia e altrove, sembrano essere perfettamente integrate tra di loro.
Sabato mattina cogliamo l’occasione per andare a registrare il video sull’obbligatorietà del casco e ci fermiamo per un po’ ad ammirare il traffico su Dr. Louises Bro dove i copenaghesi si affollano per sedersi per terra a godersi il sole, a bere caffè e succhi di frutta. Montato il cavalletto e tutto il resto, ci rendiamo conto che c’è una musica di sottofondo che proviene da una cargobike convertita a caffetteria. Chiediamo al proprietario di spegnere la musica e lui, cortesemente, acconsente. Mi aspettavo un brusco “ma con tutto lo spazio che c’è, proprio qua devi metterti?” e invece no, acconsente.
Finita la registrazione, lo ringraziamo e gli facciamo segno che può accendere la musica di nuovo. Lui sorride e intanto gli ordiniamo il caffè. Ha uno splendido baracchino e ci dice che fa arrivare il caffè che vende proprio dal suo villaggio, in Etiopia. Si trova a Copenhagen da oltre 5 anni e dice di trovarsi bene.
Nel frattempo arriva un tizio su una cargobike a pedalata assistita futuristica è una M1 di Butcher & Bicycles: ha gli ammortizzatori alle ruote anteriori e il cassone si inclina e segue la direzione delle curve per contrastare l’azione della forza centrifuga, una specie di pendolino a pedali, insomma.
Nel cassone è seduto un bambino con il casco in testa. Fuori dal cassone c’è Mirsad, un ragazzo bosniaco che ci racconta essere scappato dalla guerra nel 1993 e che ha trovato a Copenhagen il luogo in cui fermarsi e mettere su famiglia.

Mirsad e suo figlio nella pausa caffè.
Si intrattiene un po’ con il venditore di caffè e si dispensano abbracci fraterni, poi si mette a spiegarci la scelta della sua cargobike: “vivo a Copenhagen e non ho spazio per l’auto, però avendo un figlio piccolo ho sempre montagne di cose da trasportare, per questo ho deciso di comprarmi una cargobike. Già che c’ero, ho deciso di prendermi un modello full optional. Ci ho speso l’equivalente di una macchina usata, ma non devo pagare il parcheggio e neppure la benzina, l’assicurazione e tutto il resto. Ma soprattutto – dice indicando il proprio erede seduto tranquillamente nel cassone – a lui piace così e infatti il problema è sempre farlo scendere.”
Mirsad è un grafico e ad oggi ha fondato due aziende, una delle quali si occupa di arredamento di interni. Gli chiediamo se non abbia avuto problemi di integrazione e lui risponde calmo. “Beh, considerando che ho lasciato Sarajevo quando la città era sotto assedio da oltre un anno, per me è stato facile adattarmi alla mia nuova casa, anche se ogni tanto sento la mancanza della mia terra, ma non so se ci tornerò mai: i miei figli potranno avere un futuro a Copenhagen che non avranno mai a Sarajevo”.
Una bella storia, non c’è che dire, ma c’è qualcosa che non torna: ogni volta che ci ritroviamo a parlare con qualcuno, torna e ritorna la storia che la Danimarca era un paese povero e che quindi, bla bla bla, ma guardandoci intorno non riusciamo a trovare neppure il ricordo di questa povertà.
Cioè, non che mi aspettassi di trovare case di lamiere tenute insieme con lo scotch e lo spago, ma per lo meno qualche indigente che chiede l’elemosina in giro te lo aspetti. Ed effettivamente questi ci sono, ma sono pochi, soprattutto perché invece che chiedere l’elemosina se ne vanno in giro a raccogliere bottiglie di plastica, vetro e lattine per cui, grazie al sistema del vuoto a rendere, sono in grado di mettere assieme qualche corona tenendo pulite le strade e contribuendo alla raccolta differenziata: bingo!

Non sono rifiuti, sono risorse.
Uno degli obiettivi del mio viaggio qui doveva essere infatti quello di carpire il segreto della felicità danese (la Danimarca nel 2015 è stata definita dal Sustainable Development Solutions Network come il paese più felice al mondo) e per questo mi sono intrattenuto con tante persone diverse chiedendo loro spiegazioni.
Morten Kabell, sindaco di Copenaghen per gli affari tecnologici e ambientali, ride quando glie lo chiedo. Dice di non voler prendere troppo sul serio la cosa, ma se c’è un segreto deve essere quello della flexicurity del mercato del lavoro: un connubio di provvedimenti che assicurano da un lato la possibilità delle aziende di licenziare più o meno a proprio piacimento garantendo ai lavoratori un cuscinetto economico di svariati mesi che permette il reinserimento nel mercato del lavoro.
Secondo Ann, invece, una signora svedese che lavora per il comune di Copenhagen con cui siamo finiti a cena, il segreto sta nella mancanza di disparità economiche e sociali tra i cittadini (ed effettivamente la Danimarca secondo l’OECD è il paese con minori disparità economiche al mondo). “I Danesi non amano ostentare – dice Ann – anche se sono molto ricchi tendono ad avere una vita frugale e modesta: nessuno ti dice, per esempio che il proprio figlio è un campione di uno sport o un fenomeno. Ti dicono che fa atletica, per esempio. Poi un giorno leggi su un giornale che partecipa alle olimpiadi e dici wow. Insomma, qui nessuno ti fa pesare di non essere abbastanza bravo o che devi essere per forza il migliore; è come se ciascuno debba fare solo ciò che maggiormente lo gratifica e lo fa stare bene.”

Metti una sera a cena con Ann e la sua famiglia.
Sarà pure come dice Ann, ma sta di fatto che qui l’orario di lavoro standard va dalle 9 alle 16 e se finisci di lavorare alle 16, ti avanza un sacco di tempo per dedicarti alla famiglia, agli amici e a fare baldoria. Certo, il contraltare di questo finire presto con il lavoro significa anche che la vita notturna non è particolarmente sviluppata, ma se inizi a far festa alle 17 è anche normale che a mezzanotte vuoi startene tranquillo sotto le coperte e il giorno dopo alle 9 sei in ufficio fresco come una rosa.

L’ufficio di Copenhagenize
Giorgio, invece, ingegnere sardo trentenne, mi mostra un’altra faccia ancora della medaglia. Giorgio è arrivato a Copenhagen 6 anni fa. Si racconta mentre ordiniamo un frullato di frutta dal mercato di Torvehallerne. Nonostante qui tutti parlino perfettamente inglese, Giorgio parla Danese con molta disinvoltura. “È un programma obbligatorio per gli stranieri” dice “qui appena arrivato devi fare un corso gratuito di lingua e cultura danese. I corsi si tengono durante gli orari di lavoro e la cosa ti aiuta molto a integrarti” mi dice.
Giorgio lavora nel fotovoltaico e adesso si sta affacciando al mondo dell’eolico, sta facendo un dottorato di ricerca, e sta per lanciare la sua seconda start up. Parliamo dell’Italia e della Danimarca, ma sorvoliamo sulle solite cose. Paghiamo e leggo sullo scontrino che qui applicano l’IVA al 25%, cosa che mi sciocca abbastanza, ma Giorgio mi rassicura: “quello che vedi attorno a te non è gratis: le tasse sono alte, ma qui le pagano tutti e il risultato è che le cose funzionano per tutti. Quello che paghi ti ritorna in servizi”. Tutto sommato, ci sta.
Anche Francesca è dello stesso avviso. Francesca lavora per un’organizzazione internazionale e quattro anni fa è stata trasferita da Roma a Copenhagen. Parla del cambio di città come una sorta di migrazione su un altro pianeta: “la fiducia è la grande differenza qui: è come se tutti si fidassero di tutti e ne ho avuto la dimostrazione quando ho comprato casa. Mi è bastato mostrare le mie ultime tre buste paga e dichiarare di essere proprietaria di un immobile in Italia e loro mi hanno concesso un mutuo. Non hanno voluto neppure vedere i documenti della casa in Italia. Si fidano. Sempre. E questo è il motivo per cui qui le porte delle case sembra che si possano scassinare con un grissino.”
E della differenza tra Roma e Copenhagen dice: “io qui lavoro a 5,3 km da casa. Per ironia della sorte è la stessa distanza di quando stavo a Roma. Io qui vado al lavoro in bicicletta e ho il mio rituale: all’andata vado diretta e spedita, mentre al ritorno allungo un po’ la strada per passare davanti ai laghetti che mi danno un senso di pace e di tranquillità. È la parte più bella delle mie giornate di lavoro. A Roma, invece, usavo la bicicletta solamente ad agosto, quando le strade erano semivuote e io potevo pedalare senza troppi timori, per il resto, dipendevo dai mezzi pubblici e quindi non sapevo mai quanto ci volesse per arrivare al lavoro. Era la parte peggiore delle mie giornate di lavoro.”
Troppo facile, mi dico io.
E qui realmente, sembra tutto troppo facile. Anche fare il turista.
Perché ti basta fermarti per strada, aprire una cartina e trovi sempre qualcuno che ti chiede dove tu voglia andare e ti indica la via. Una sensazione che altrove si fa fatica a provare perché ti capita di essere visto spesso come il turista da spennare, da prendere in giro o da rimproverare perché intacca l’identità del luogo in quanto straniero.
Ma d’altronde, chi lo dice che la vita debba essere per forza difficile? Klaus Bondam, direttore della federazione ciclistica danese mi offre un altro buono spunto: di fronte al problema della sicurezza agli incroci per chi si muove in bicicletta, la federazione dei ciclisti si sedette a un tavolo assieme all’azienda dei trasporti per spiegare ai conducenti le proprie esigenze. Da allora per diventare autista di autobus bisogna anche aver pedalato un certo numero di km in bicicletta.

Klaus Bondam della Federazione dei Ciclisti Danesi
In buona sostanza qui sembra che la stessa logica applicata nella progettazione delle strade sia stato applicato a tutto il resto della società, dalle relazioni industriali in giù, una logica che prevede l’eliminazione del conflitto riconoscendo a tutti e a ciascuno la propria collocazione, il proprio spazio e i propri diritti. E anche la gestione dei tempi riprende la gestione dello spazio: se lo spazio è messo a disposizione delle persone, così è il tempo e infatti la città sembra un enorme parco giochi dove adulti, bambini e anziani possono sentirsi perfettamente a proprio agio 24 ore su 24.
E deve essere per questo che a Copenhagen c’è spazio per edifici che hanno 300 anni che si affacciano su esperimenti architettonici come il Black Diamond, la biblioteca reale che si presenta come un solido nero in grado di trasformare i raggi solari in calore e di distribuire la luce al proprio interno.
Insomma, Copenhagen è quel luogo in cui i contrasti ci sono e sono tanti, ma invece di collidere tra loro, si compenetrano e bilanciano dando vita a un equilibrio complesso e affascinante, proprio come fa la bicicletta.
Noi siamo stati 4 anni fa a Copenaghen in campeggio alla fine di settembre. Arrivati si sono meravigliati che degli italiani arrivassero in roulotte fin da loro, con appresso un cane e due ragazze di appena 12 e 14 anni con le ralative bici. Tutto esatto quello che ho letto in questo articolo, sembra di essere in un altro pianeta invece siamo solamente a 1000km di distanza da noi. Faccio solo un esempio mi sono trovata senza latte ed il supermercato era a 5 minuti dal campeggio, purtroppo erano le 17.00 e tutti i negozi stavano chiudendo ma la cosa che più ci ha stupito il silenzio che regnava dentro a tale centro commerciale mia figlia continua a chiedermi se eravamo veramente dentro un centro commerciale oppure da un’altra parte. I treni stupiti anche lì si entra con le bici o con carrozzelle senza problemi qui se devi prendere un autobus con un passeggino da suicidio. Le persone dolcissime e cordiali noi siamo rimasti veramente contenti.