Mobilità

Ridurre la dipendenza dall’automobile è possibile: perché serve e come ottenerlo

di Francesca Ciuffini / Transport Planner, ingegnere trasportista, autrice del libro Orario ferroviario: integrazione e connettività (Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani ed.), vive a Roma car-free

Secondo Hegel, come ci ricorda Slavoj Zizek, vi è una differenza tra libertà astratta e libertà concreta: “una libertà astratta diventa il suo contrario perché restringe di fatto il nostro esercizio della libertà”.

Questo concetto sembra fatto apposta per essere applicato alle contraddizioni della mobilità urbana basata principalmente sull’utilizzo dell’automobile di proprietà.

I paradossi dell’immobilità del sistema auto

La libertà (astratta) di mobilità offerta dall’automobile, su cui si è basata l’espansione urbana degli ultimi 70 anni, può infatti portare alla sua negazione, nel momento in cui l’esercizio di massa di questa libertà determina la (concreta) prigionia degli automobilisti, nel traffico da loro stessi creato.

Come diceva Ivan Illich, nel suo illuminante Elogio della bicicletta scritto nel 1975, “la dipendenza forzata dalle macchine automobili nega […] a una collettività di persone semoventi proprio quei valori che i potenziali mezzi di trasporto dovrebbero in teoria garantire.”

Quale libertà

L’esercizio di massa della libertà di spostarsi in automobile è in contrasto, inoltre, con altre forme di libertà, quali quelle di poter camminare o pedalare incolumi. E anche di respirare aria pulita, di non ammalarsi per l’inquinamento, di avere città vivibili, di non essere sovrastati dal rumore, di non patire le conseguenze del cambiamento climatico.

Libertà e immobilità

Che la libertà astratta di muoversi in automobile spesso si traduca in immobilità ci è stato messo davanti agli occhi dalla pandemia. L’immobilità causata dal confinamento si è infatti improvvisamente trasformata nella libertà di muoversi in una città senza traffico: in automobile o con gli autobus che potevano sfrecciare a velocità viste neanche ad agosto o, ancora, camminando o pedalando in tranquillità.

Ecco, dunque, l’ulteriore paradosso di una mobilità basata prevalentemente sull’uso dell’auto: la libertà di spostarsi facilmente è possibile solo con le limitazioni a muoversi.

La competizione per lo spazio urbano

Questi paradossi nascono dalla scarsità dello spazio urbano e dal fatto che nelle aree urbane da una certa dimensione in su, l’auto di proprietà è la modalità di trasporto spazialmente meno efficiente.

In questa “competizione” per lo spazio urbano, più si dà spazio alle automobili, più queste aumentano e meno viene voglia di spostarsi a piedi o in bicicletta o con l’autobus intrappolato nel traffico, più si preferisce l’auto e così via, in un bel circolo vizioso che porta alla congestione che ben conosciamo.

Più si confida in questa libertà offerta – sulla carta – dall’auto privata, tanto più si espandono e si disperdono le città e le arterie di accesso al suo centro possono implodere sotto il peso del traffico.

Ridurre la dipendenza dall'automobile
Ridurre la dipendenza dall’automobile

Per uscirne serve ridurre la dipendenza dall’auto

Parto dal presupposto che il traffico e la congestione non piacciano a nessuno, automobilisti inclusi; che vi sia interesse ad aumentare il benessere individuale, l’efficienza di aziende ed organizzazioni e la competitività internazionale delle nostre città.

Se è così, allora abbiamo bisogno che l’auto sia usata di meno, che si riduca la necessità del doverla usare a tutti i costi e tutti i giorni – per qualsiasi spostamento anche breve – che si creino le condizioni per far prendere in considerazione le alternative, se ce ne sono, oppure che queste alternative, che sono il trasporto pubblico e la mobilità attiva si creino, ove possibile, dove non ce ne sono.

La dipendenza dal possedere l’auto

Se vogliamo che si riduca anche il numero delle auto parcheggiate su strade e piazze (che ci sommergono e tolgono spazio pur stando ferme), abbiamo bisogno che le famiglie possano decidere di rinunciare all’auto in più o che possano decidere di non possederla affatto. Questo può diventare possibile solo se ci si può spostare bene anche senza e se esiste un’alternativa. Per quando proprio serve un’auto, ad esempio con lo sharing.

Abbiamo in definitiva bisogno di ridurre la dipendenza dall’auto, delle nostre vite e delle nostre città, dal doverla usare e dal doverla possedere.

Scelte individuali e scelte sistemiche

Serve allora andare alle origini di questa dipendenza, per capire in che modo si può ridurre, agendo sui due livelli individuale e collettivo.

La mobilità è infatti il risultato di scelte individuali (e familiari), ma all’interno di un sistema dato, che spesso vincola questa scelta.

Il punto allora è capire in che modo questo sistema possa essere modificato da scelte (sistemiche) che abbiano lo scopo di “svincolare” e ri-orientare le scelte individuali verso modalità più sostenibili, riducendo la “dipendenza” dall’auto.

Dipendenza oggettiva o soggettiva

Oggettivamente, possono esservi dei vincoli esterni: ad esempio perché si vive lontano dagli assi del trasporto pubblico e si devono fare spostamenti lunghi, non percorribili né a piedi né in bici. In questi casi si è captive dell’auto, cioè la scelta individuale avviene all’interno di un sistema vincolante che non offre alternative.

La dipendenza può essere anche solo psicologica, data da condizionamenti interni: la pigrizia del fare due passi o del doversi informare su quali mezzi usare, fino alla preclusione pregiudiziale ad usare qualcosa di diverso dalla propria auto.

Oppure può essere dettata da abitudini personali e da abitudini familiari che poggiano sull’esistenza dell’auto (se ce l’abbiamo, non serve scegliere per le vacanze una meta raggiungibile in treno).

O, ancora, da abitudini collettive (ci incontriamo per l’aperitivo in posti lontani dalla metro, tanto abbiamo tutti l’auto…) e così via.

Urbanistica e trasporti insieme

Se davvero puntiamo a ridurre la dipendenza dall’auto, abbiamo bisogno di agire su ciò che crea il vincolo e diventa fattore condizionante. Ad esempio, sui vincoli oggettivi, esterni, come vivere lontani dal centro, in una zona di espansione non servita da assi del trasporto pubblico o in una zona residenziale dispersa.

In entrambi i casi c’è dietro una scelta sistemica di disegno urbano e del territorio, che è partita dal presupposto di una mobilità basata sull’uso dell’automobile.

Una prima soluzione è quella di politiche urbane definite insieme ai trasporti, che partano dal presupposto contrario – cioè che sia possibile spostarsi anche senza auto di proprietà: espansioni urbane intorno agli assi forti del trasporto pubblico e contrasto ai fenomeni di dispersione urbana (lo sprawling).

Aumentare la prossimità

Prendiamo la necessità di fare spostamenti lunghi, ad esempio per accompagnare i propri figli alle attività pomeridiane, perché non ce ne sono vicino alla propria abitazione e andarci in autobus non è possibile o porta via troppo tempo: le politiche di prossimità urbana (es. la “città a 15 minuti”) hanno lo scopo di ricondurre spostamenti di questo tipo entro il raggio della mobilità attiva, semplificando tra l’altro la vita di ragazzi e famiglie.

Il modello culturale

I condizionamenti interni sono più sottili e meno facili da vedere. Le nostre abitudini personali, familiari e collettive sono in qualche modo plasmate anche dal sistema culturale in cui siamo immersi. A parte, banalmente, le pubblicità sull’automobile, anche il cinema, la televisione, il mondo della moda sono responsabili nel presentarci candidamente un mondo solitamente auto-centrico.

E in assenza di vincoli che cosa succede?

Dipende. Se si hanno mezzi pubblici per fare il proprio spostamento, può ancora rimanere conveniente usare l’automobile, perché ci si mette di meno o perché non si vuole attendere troppo tempo se la frequenza è bassa. Oppure perché non si vuole stare pigiati come sardine o ad una distanza troppo ravvicinata, soprattutto dopo il Covid.

Oppure perché non si è informati del servizio o è complicato prendere le informazioni o la stazione non è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. O perché si hanno bagagli pesanti, cose da trasportare, si viaggia con i bambini o si viaggia in più persone e in auto costa di meno. O ancora, perché ci si deve spostare di sera e in auto ci si sente più sicuri, se i mezzi da prendere sono con poche persone e c’è poca illuminazione, o perché si devono fare tanti spostamenti nel corso della giornata o il giorno dopo, perché diluvia… e così via.

Politiche pull e politiche push

Insomma, per essere scelto il mezzo pubblico deve essere realmente competitivo con l’automobile e non sempre lo è.

La possibilità di fare politiche pull verso il mezzo pubblico, per trasformarlo in una conveniente alternativa all’automobile, è nelle mani delle aziende di trasporto e dei soggetti committenti e finanziatori del servizio, come nel caso del trasporto pubblico locale, che decidono ad esempio, sulla base di quanto possono finanziare (dati i finanziamenti da parte dello Stato), quale sarà la frequenza dei servizi e anche il loro costo per i cittadini (vedi Klimaticket in Germania).

Poi ci sono le politiche push, di disincentivo all’uso dell’auto, che sono nelle mani delle amministrazioni, che potrebbero anche dirottare eventuali entrate da road pricing e area pricing sul finanziamento del trasporto
pubblico.

C’è nondimeno un aspetto delicato a questo riguardo da considerare, e cioè la differente distribuzione della popolazione nelle grandi città in base al reddito: nelle aree centrali ben servite dal mezzo pubblico e in quelle periferiche, dove spesso si è vincolati all’uso dell’auto (e si torna al tema dell’urbanistica insieme ai trasporti). In Francia, ad esempio, le proteste dei Jilet Jaunes, dopo l’aumento delle accise sui carburanti, prendevano le mosse da questa contrapposizione.

Il tema dei finanziamenti per il trasporto pubblico

I costi del trasporto pubblico locale solo per una parte sono remunerati con la vendita dei biglietti. Per il resto sono a carico delle amministrazioni committenti, perché c’è un obbligo di servizio pubblico.

La frequenza delle corse (che significa servizio più attrattivo, per i minori tempi di attesa e la maggiore capienza a bordo) dipende da questi finanziamenti.

Abbiamo visto con il Covid, quando non era più possibile stare pigiati come sardine, cosa significa avere una frequenza insufficiente: il trasporto pubblico locale è diventato uno dei colli di bottiglia della ripresa e la didattica a distanza un’alternativa alla mancanza di spazio sui bus.

Anche ora, i finanziamenti del PNRR sono andati agli investimenti sulle infrastrutture, ma chi finanzierà la spesa corrente per lo sviluppo dei servizi di trasporto sulle nuove infrastrutture?

La sostenibilità del trasporto fino ad oggi è stata vista prevalentemente nella sua accezione economica, trascurando la dimensione della sostenibilità ambientale e sociale.

Ma le persone non vogliono più viaggiare come prima del Covid, pigiati l’uno con l’altro e intrappolati nel traffico: se non hanno servizi adeguati, ancora più facilmente di prima vorranno usare l’auto, che nel frattempo è diventata più dispendiosa per il caro energia. Il grande successo dello smart working è anche perché evita il disagio, l’insostenibilità degli spostamenti nelle ore di punta.

Siamo difronte a un tema squisitamente politico, che la politica potrebbe quantomeno porre, per capire quanto la collettività è disposta a pagare per avere servizi di trasporto pubblico capaci di far viaggiare i cittadini in condizioni confortevoli ed essere scelti da un numero crescente di persone, con vantaggi per tutti: se il trasporto pubblico funziona meglio, si riduce il traffico e migliora l’efficienza produttiva di città altrimenti intasate e rallentate, funziona meglio l’economia.

Le giovani generazioni sono inoltre più sensibili al tema dell’impatto sul clima e chiedono ai governi azioni concrete.

E la mobilità attiva?

È cruciale. Già oggi rappresenta una fetta importante della mobilità, con potenzialità enormi. Basti pensare che quasi il 60% degli spostamenti complessivi è in Italia sotto i 5 km e che quasi il 50% di coloro che usano l’automobile o il mezzo pubblico compie spostamenti sotto i 5 km.

Questo vuol dire che favorendo la mobilità attiva, possiamo allo stesso tempo sia togliere auto dalle strade, sia liberare posti sui mezzi pubblici in favore di chi viaggia su distanze più lunghe.

I circoli virtuosi che serve vedere

Meno auto sulle strade significano minore congestione, maggiore velocità dei mezzi pubblici di superficie, maggiore efficienza di questi ultimi e dunque possibilità di aumentare le frequenze a parità di risorse fisiche (flotta e persone) ed economiche.

Se aumentano le frequenze migliora l’attrattività del trasporto pubblico, perché si riducono i tempi di attesa e c’è più spazio a bordo. Si riduce così il numero di coloro che scelgono l’automobile, si riduce il traffico e così via in un bel circolo virtuoso che porta benefici a tutti, financo agli automobilisti.

Se si favorisce la mobilità attiva, pedonale e ciclabile, restituendo alle persone lo spazio ad esse sottratto dalle automobili, funziona meglio anche l’ultimo miglio di ferrovie e metropolitane.

Se queste ultime funzionano meglio, si riduce il numero delle auto in circolazione ed aumenta la propensione alla mobilità attiva e riparte il giro.

Le soluzioni taumaturgiche non esistono

Al contrario, assistiamo spesso alla contrapposizione tra soluzioni, presentate come taumaturgiche, “LA” soluzione, siano esse la mobilità attiva o il trasporto pubblico, e alla conseguente polarizzazione tra chi sostiene le diverse soluzioni: ad esempio tra i promotori della ciclabilità (spesso proposta a pezzetti e monconi senza fornire una visione di rete di più lungo termine) e chi invece, difensore del mezzo pubblico, propone che i fondi destinati alle ciclabili siano destinati ad altro o addirittura che le ciclabili siano smantellate (Corso Buenos Aires a Milano, Via Nizza a Torino o Via Tuscolana a Roma), senza aspettare che queste possano essere davvero trasformate in una vera rete.

Questa polarizzazione non scalfisce il predominio incontrastato dell’auto.

La verità è che questi circoli virtuosi si possono attivare solo agendo sui due fronti, potenziamento del trasporto pubblico e della mobilità attiva: all’unisono e con la consapevolezza che si può procedere per fasi, celebrando ogni piccolo passo verso questa direzione.

Una rete di altre misure al contorno per la ciclabilità

Oltre a una vera rete di ciclabili serve anche attivare una rete di altre misure al contorno, atte a favorire la ciclabilità: dalla possibilità di poter lasciare la bici in sicurezza nei condomini, negli uffici, nelle stazioni, fuori dei supermercati, alle docce negli uffici, al bonus per chi pedala, come “risarcimento” per non inquinare e respirare l’inquinamento prodotto da chi va in auto.

Anche qui, non è necessario aspettare le ciclabili per agire su questi fronti più soft, perché ogni piccolo passo porta in avanzamento tutto il sistema, attivando circoli virtuosi.

L’ottimizzazione dello spazio urbano e il capovolgimento del paradigma “Largo alle auto”

E torniamo dunque allo spazio urbano, la risorsa critica.

Non andremo lontano se manterremo salvo il presupposto che la priorità debba essere data alle automobili, che con queste si possa andare e parcheggiare ovunque e che qualsiasi cosa facciamo per la mobilità sostenibile debba essere attenta a non incrinare questo dominio incontrastato.

Al contrario, se cambiamo presupposto e crediamo che 1) la finalità sia l’accesso ai luoghi, alle persone, a quello che ci serve e 2) che si vogliono spostare le persone e non le auto, ecco che allora abbiamo bisogno di scelte di policy coraggiose, da parte dei decisori pubblici, che possano puntare su un riequilibrio e una ottimizzazione dello spazio urbano, prevedendo più corsie preferenziali per i bus, una vera rete di ciclabili, l’estensione delle zone a 20-30 km/h, marciapiedi degni di questo nome, sedute in giro per la città e spazi vivibili per le persone.

Serve disegnare città meno dipendenti dall’automobile privata e meno divoratrici dello spazio e del tempo della collettività.

SDG 17: Serve una “partnership for the goal”

I soggetti chiamati in causa, insomma, sono tanti: dalle amministrazioni, alle aziende di trasporto, alle organizzazioni, al mondo produttivo e commerciale, alla politica che decide sui finanziamenti, ai soggetti che decidono sul disegno delle nostre città. Ma anche tutti gli altri soggetti che possono determinare quelle modifiche sistemiche tali da ridurre la dipendenza dall’auto.

Si pensi alla mobility education, che viene prima di tutto dall’esempio in famiglia ma anche da quello che fa la scuola, ad esempio con i posti bici nei propri cortili. Oppure, pensando al problema degli zaini troppo pesanti, risolto infatti molto spesso con lo chauffering da parte dei genitori fino al portone della scuola.

Si pensi a quello che possono fare le aziende, con il mobility manager, in maniera analoga, ma anche incentivando il cammino e l’attività fisica tra i propri dipendenti. Oppure con il prevedere le cosiddette End-of-Trip facilities, come i posti bici protetti e le docce negli uffici per coloro che vengono in bici da più lontano. Che potrebbero servire, tornando all’incentivo all’attività fisica, anche a chi vuole correre o pedalare durante la pausa pranzo.

O ancora, si pensi ai supermercati che potrebbero dare sconti a chi viene col biglietto dell’autobus e prevedere parcheggi bici, oltre che per le auto. O a come incentivi ai negozi di prossimità potrebbero riequilibrare il sopravvento della grande distribuzione.

E infine, pensiamo a come incentivi ai frequent user dei taxi (ad esempio tariffe scontate), assicurazioni sulla persona e non sul veicolo (per i noleggi occasionali di chi non possiede l’automobile), il potenziamento della sharing mobility potrebbero, insieme, incentivare le famiglie a ridurre il numero delle auto di proprietà.

È urgente, insomma, una partnership tra tutti i soggetti che possano contribuire a ridurre la dipendenza dall’auto, delle nostre città e delle nostre vite. E serve anche prendere in carico la conversione dell’industria automobilistica e porsi politicamente il problema del come sostenerla.

Tra gli obiettivi dell’agenda europea, i Sustainable Development Goals (SDG), l’ultimo, l’obiettivo 17 è proprio questo: Partnership for the goal.

E a ben vedere questo più che uno scopo è uno strumento, da costruire per forza di cose insieme. Lo scopo è quello di città più vivibili. Per tutti.

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Commenti

  1. Avatar Marco ha detto:

    Complimenti, bell’articolo.
    Cose che penso da molto tempo, ben organizzare e coordinate in un vademecum per chi ha veramente a cuore la condivisione degli spazi pubblici ed una mobilità efficiente ed ecologica

  2. Avatar Fabio ha detto:

    Completa e particolareggiata disamina di un grave problema. Sono d’accordo su tutto.
    Però, visto che siamo in Italia, utilizzerei la nostra bella lingua e lascerei da parte gli inglesismi (sharing, sprawling, road prycing, area prycing, chauffering, end of trip facilities, frequent user, ecc.); mi fiderei meno del fatto che i giovani siano più sensibili ai guai del pianeta (spesso sono solo immagini televisive di manifestazioni di comodo per qualcuno) ed il lucido pensiero filosofico hegeliano a volte rimane un mero esercizio teoretico.
    Affermare che il confinamento pandemico ci abbia permesso di camminare o pedalare in tranquillità, quando eravamo forzatamente reclusi fra le pareti domestiche e chi sgarrava veniva cazziato dai tutori dell’Ordine, mi sembra una forzatura ma ne capisco il senso.

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